domenica 26 dicembre 2010

Alla ricerca del Natale perduto

Per riscoprire il senso cristiano della festa nella società multiculturale

Natale ritorna. Ritorna con la sua luce anche in questi giorni che sono segnati dalle notti più lunghe dell’anno. Ritorna annunciato da milioni di piccole luci che sembrano voler ornare le nostre città e le nostre case. Ritorna nei giorni più freddi e questo suo ritorno annuale, questa ripetizione può anche generare noia e fastidio se ciò che si ripete manca di senso, non accende un certo stupore, non apre alla speranza.

Da qualche anno, interrogativi inediti hanno comunque iniziato ad aleggiare sul Natale e sul modo di celebrarlo. Da un lato si è accentuata sempre di più la dimensione commerciale delle «festività di fine anno», che non a caso hanno assunto anche nella terminologia una dimensione slegata dall’evento della nascita di Gesù: ormai pochi, anche tra i cristiani, rammentano e testimoniano nei fatti che il mese precedente il Natale è il tempo dell’Avvento, cioè dell’attesa del ritorno del Signore, e si interrogano sulla coerenza di certi comportamenti con il messaggio cristiano. D’altro canto, assistiamo a curiose e a volte aspre polemiche circa l’opportunità o meno di celebrare in spazi laici e pubblici - in primis nelle scuole materne ed elementari - cerimonie «natalizie»: recite, canzoni, mostre di disegni, feste rievocative vengono improvvidamente cancellate per un malinteso senso di rispetto delle altre tradizioni religiose oppure enfatizzate e promosse per brandire un’identità «contro» l’altro.

Verrebbe da chiedersi se queste tensioni e contraddizioni non possano essere colte come opportunità per un serio ripensamento della propria fede - o non fede - e del suo modo di esprimersi anche pubblicamente in una società ormai multiculturale: il fatto che determinate tradizioni natalizie non siano più accolte come scontate da tutti potrebbe essere un’ottima occasione per una purificazione del modo che i cristiani hanno di vivere la propria fede e di testimoniarla nella compagnia degli uomini. Siamo così sicuri che gli aspetti ritenuti più ovvi e caratteristici delle festività natalizie abbiano davvero a che fare con la fede in Gesù, nato da Maria, venuto nel mondo per narrare a tutti il volto misericordioso di Dio? Pensiamo realmente che la presenza di giovanotti bardati da vecchi bonaccioni nei centri commerciali rimandi al mistero della notte di Betlemme? O che dei buffi pupazzi che si arrampicano sui nostri balconi o si calano dai camini in concorrenza con streghe a cavallo di una scopa rievochino l’annuncio di «una grande gioia per tutto il popolo» o «la pace in terra per gli uomini di buona volontà»? E che coerenza mostra chi difende accanitamente la recita scolastica con melodiosi canti natalizi facendone un evento irrinunciabile per il proprio figlio e poi non si pone nemmeno il problema di una sua partecipazione alla messa di mezzanotte o del giorno di Natale?

In questo tempo ritrovato che le feste ci offrono, potremmo ripensare a come molte tradizioni si sono formate nel corso della storia, in un intreccio fecondo tra fede e cultura. Così, per esempio, i cristiani delle primissime generazioni seppero unire la loro fede in Gesù, luce del mondo, alla celebrazione del «sole invitto» nel solstizio invernale; così san Francesco riuscì a calare nella realtà contadina dell’Italia medievale l’atmosfera del presepe che richiamava quanto accaduto nella campagna di Betlemme milleduecento anni prima; così, per venire a tempi più vicini a noi, la figura di san Nicola trapiantata da Mira ai paesi nordici è scesa di nuovo fino in riva al Mediterraneo per affiancarsi a «Gesù bambino» nel colorare con la gioia del dono fatto e ricevuto la notte di Natale. E che dire dell’albero adorno di luci e addobbi, un tempo sconosciuto nei paesi della cattolicità latina? E a quando risale la lieta tradizione del pasto di festa che riunisce le persone che si amano e che vogliono vivere per una volta in una dimensione dilatata e gioiosa l’evento quotidiano della convivialità a tavola?

Sì, cosa pensiamo davvero quando diciamo «Natale»? Riscoprire e riaffermare i connotati più propriamente cristiani della festa - il Dio che si è fatto uomo perché ha tanto amato il mondo - non significa rinchiudersi in un ghetto esclusivo, ma mostrare inedite capacità di narrare con il linguaggio della nostra cultura in continuo mutamento la perenne «buona notizia» che riguarda tutta l’umanità: la nascita di Gesù è abbraccio tra giustizia e verità, è incontro fecondo tra cielo e terra, è speranza e promessa di pace e di vita piena.

FONTE: Enzo Bianchi (lastampa.it)

giovedì 16 dicembre 2010

Modigliani, ma quello vero: il Mart riunisce le teste della discordia

Altro che i falsi. A Rovereto una mostra mette insieme per la prima volta le sculture autentiche dell'artista livornese per un evento eccezionale frutto di sei anni di ricerche, studi e scoperte


Altro che la beffa delle false teste di Modì, stavolta una mostra mette insieme per la prima volta le sculture autentiche del grande artista livornese. Rigorosamente in pietra arenaria, di grandezza anche superiore al naturale, dalle forme enigmatiche nella loro purezza avvolgente, dai tratti essenziali e magistralmente allungati quasi a voler fondere insieme tutta un'estetica arcaica con la suggestione tribale e primitiva. Sono le bellissime creature plastiche di Amedeo Modigliani eccezionalmente esposte nell'evento "Modigliani scultore" che dal 18 dicembre al 27 marzo si aprirà al Mart di Rovereto, progetto espositivo ambizioso e audace firmato da Gabriella Belli, la direttrice del museo, Fabio Fergonzi e Alessandro Del Pippo. 

Non è certo una rassegna scontata o facile. Innanzitutto perché Modì ha scolpito pochissimo nella sua vita, concentrando questa forma d'arte tra il 1911 e il '13, quando preferì scolpire la pietra  -  e non il bronzo che andava di gran moda a Parigi sulla scia della grande lezione di Rodin  -  abbandonando momentaneamente la pittura. E presentò una volta soltanto le sue sculture, selezionando un gruppo di sette teste per il Salon d'Automne del 1912. Secondo lo storico catalogo di Ambrogio Ceroni degli anni '60, il primo e unico studioso che si concentrò sulla produzione plastica di Modì, si contano in tutto 25 sculture di cui oggi 15 appartengono a collezioni pubbliche, e le altre sono disperse o conservate presso inaccessibili collezioni private.

Altro motivo che rende intrigante la rassegna è che, come spiega Gabriella Belli, "I documenti che si hanno a disposizione sono pochissimi, e innumerevoli invece i problemi relativi alla datazione, alle fonti e ai modelli, alle vicende espositive e collezionistiche. Alcune di queste sculture sono rimaste abbozzate o incompiute, o giunte a noi in stato frammentario. Sono disperse in musei e collezioni private di tutto il mondo". Non da ultime, le difficoltà enormi a spostare alcune opere per la loro fragilità e quindi considerate  per statuto inamovibili. 

La mostra riesce a metterne insieme un numero eccezionale di circa dieci (anche se le trattative in corso potrebbero farne arrivare altre due) scortate da una serie rarissima di disegni preparatori ancora esistenti, accuratamente selezionati per mettere in evidenza il rapporto tra progetto e realizzazione. Disegni di volti rigidamente frontali e simmetrici, oppure di profilo, a volte associati a motivi architettonici, stilisticamente caratterizzati da un segno netto e incisivo, e da alcune suggestioni formali come l'allungamento del volto, gli occhi a mandorla, la bocca a cilindro. Lavori che diventano il perno di un percorso che si articola in un'altra settantina di opere di altri artisti, e di altre epoche, dal Rinascimento al primitivismo e alle influenze orientali all'alba del Novecento, che hanno giocato un ruolo essenziale di stimolo, confronto, suggestione e modello con Modigliani. 

Per svelare come l'artista riuscisse a mettere a punto un'inedita sintesi personale fra elementi della tradizione e originali accenti figurativi attraverso le ricerche di Picasso e Brancusi. Come pochi altri protagonisti delle avanguardie artistiche del '900, Modigliani coglie le suggestioni della storia e le intreccia con un linguaggio personale. Il tutto è frutto di ben sei anni di ricerche e indagini scientifiche in quasi tutto il mondo, tra Europa, Australia e Stati Uniti, tra musei, fondi di magazzini, collezionisti privati, archivi. Dove non sono mancate anche scoperte, tant'è che i curatori della mostra, che hanno confermato la storica catalogazione di Ceroni, vi aggiungono altre tre teste (per arrivare a 28), una di proprietà privata, una in un museo tedesco e una dispersa. Una mostra-sfida che vuole, insomma, svelare il mistero delle sculture di Modigliani, produzione che è sempre rimasta all'ombra della grandeur pittorica dell'artista livornese, perché ad un certo punto preciso, Modì posò lo scalpello. 

Il percorso espositivo, dunque, documenta i rapporti che Modigliani ebbe con gli artisti del suo tempo ma anche con le mode culturali dell'epoca, approfondisce il ruolo dei critici e dei collezionisti, e evidenzia le ragioni del definitivo spettacolare ritorno alla pittura, con i capolavori che, dal 1915 in poi, riprenderanno modelli e stili messi a punto proprio durante gli anni dedicati alla scultura. Protagonisti, una sequenza di confronti portentosi. Ecco le prime sculture di Modigliani (come la Testa in pietra proveniente dal Centre Pompidou) accanto al Bacio Costantin Brancusi, due capolavori di Modigliani, come le teste di Minneapolis e di Washington (mai viste insieme, in Italia) a fianco della Battista Sforza di Francesco Laurana, uno dei busti in marmo più celebri del Rinascimento italiano. Ancora, il Busto di donna del 1907 di Pablo Picasso, dove emergono vistose le caratteristiche presenti nelle sculture di Modiglioni. Fino alle due teste modiglianesche provenienti da Philadelphia e Londra, che raccontano la fascinazione di Modì per le maschere africane provenienti dal Gabon e dalla Costa d'Avorio. 

Notizie utili - "Modigliani scultore", dal 18 dicembre al 27 marzo 2011, Mart di Rovereto, Corso Bettini, 43. 
Orari: da lunedì a domenica 10.00 - 18.00, venerdì 10.00 - 21.00. Aperto 25 dicembre e 1 gennaio 15.00  -  20.00, 6 dicembre e 6 gennaio 10.00  -  18.00
Ingresso: intero €10, ridotto €7.
Informazioni www.mart.trento.it 2, numero verde 800 397 760, 0464 438 887
Catalogo: Silvana Editoriale, Milano

venerdì 10 dicembre 2010

Farfalle e Nick Cave Così si ripresenta il Macro

A Roma apre ufficialmente il Macro di Odile Decq, dopo un cantiere di otto anni e una spesa di 20 milioni di euro. A tenere a battesimo l'ouverture, la Casa delle Farfalle del duo Bik Van der Pol, dove abitano centinaia di piccoli animali. In un design ultra-chic, spiccano le new entry della collezione permanente, da Gilbert& Gorge a Nick cave


Signore e signori, va in scena il Butterfly effect. Perché proprio un battito d'ali di farfalla saluterà la tanto sospirata apertura del Macro. La creatura ultra-chic, dell'architetto francese Odile Decq, che vinse nel lontano 2001 il concorso indetto dal Comune di Roma per l'ampliamento degli spazi espositivi del Museo d'arte contemporanea incastonati nell'edificio di archeologia industriale dell'ex Birreria Peroni, finalmente vede la luce. E lo fa con un coup de théâtre all'altezza della situazione, con l'opera "Are you really sure that a floor can't also be a ceiling?" (Sei veramente sicuro che un pavimento non possa essere anche un soffitto?), ribattezzata oramai come la Casa delle farfalle del duo olandese formato da Lisbet Bik e Jos Van der Pol, vincitrice dell'Enel Contemporanea Award 2010. 
Dal 4 dicembre, infatti, il new Macro, diecimila metri quadrati nuovi di zecca tutti nero, rosso lacca, trasparenze di vetro, un tetto-piazza e design hi-tech (persino nelle toilette), dopo un cantiere durato otto anni e una spesa di circa 20 milioni di euro, svelerà nella grande sala Enel al piano terra, che con i suoi 1.200 metri quadrati, risulta tra le più grandi sale espositive d'Europa, un edificio a vetri popolato da centinaia di farfalle ispirato nelle fattezze architettoniche alla celebre Farnsworth House di Mies van der Rohe. Un battito d'ali per il futuro, la suggestione metafisica di un'architettura dentro l'architettura, che sarà godibile fino al 16 gennaio, e dove le persone possono entrare rigorosamente per gruppi contingentati per salvaguardare il microclima perfetto dell'habitat delle farfalle. 

Un tuffo multisensoriale in un ambiente fortemente caratterizzato dalla percezione epidermica di un'atmosfera pregna di umidità, animata da piante esotiche e da fiori dai mille colori, ma soprattutto dove la multiforme varietà delle ali di farfalla evocherà la massima espressione della bellezza naturale. Quasi l'utopia di un ecosistema intatto e inviolato dall'inquinamento, è quello che va in scena al Macro perché, come dice l'entomologo padovano Enzo Moretto del Centro Butterfly Arc che ha fatto da consulente ai due artisti olandesi, le farfalle sono i perfetti indicatori di un sistema bio-ecologico, perché quando le farfalle spariscono da un luogo significa che l'inquinamento ha preso il sopravvento. 

Quanto al resto, il Macro garantisce una carezzevole sensazione di modernità, secondo quell'idea vincente e assolutamente nuova, come ha sempre rivendicato il direttore Luca Massimo Barbero, di osmotica integrazione nel quartiere, diventando il museo stesso un lungo di passeggiata dinamica, flessibile, variabile e, perché no, divertente a Roma. Dall'ingresso concepito come un piccolo bosco zen, si entra nel foyer nero, inondato di luce naturale proveniente dal gigantesco lucernaio-terrazza (prossima a diventare una fontana) e dominato dalle mura rosso lacca dell'Auditorium che appare come un visionario geode, a pulsare come fosse il cuore del Macro. Al suo interno, non può che confermare le aspettative, sfoggiando una sala tutta rossa con 160 poltroncine attrezzate di tavolini pieghevole e luce. Fuori, è tutto un inanellarsi di percorsi fluidi, giocati sulla variabile delle passerelle pensili che gareggiano nell'offrire prospettive sempre diverse degli spazi espositivi, con un punto focale che è la macro-sala Enel godibile anche dall'alto.
Insomma, il bello del Macro è quello di essere tutto percorribile, a più livelli. Oltre alla casa delle farfalle, chiaramente, l'apertura diventa l'occasione di allestire la collezione permanente, che, come vuole la tradizione, ruoterà per cicli espositivi. Oggi tocca ad un racconto per immagini sul tema dell'uomo, il suo corpo e il suo mondo. In mostra nuovi prestiti, comodati e donazioni che sotto la direzione di Barbero hanno rimpinguato il caveau del Macro. Nella cosiddetta galleria bianca si trova la "pelle" Skin di Gilbert & George, idealmente rapportata alla trapunta abbandonata del duo Perino e Vele, Alighiero Boetti, il lenticolare di Luigi Ontani, Marc Quinn, Elmgreen & Dragset, il Belvedere di Paolini. Sfila la galleria di artisti ritratti da noti fotografi nel progetto Così come sono / The Way They Are, realizzato dal Macro grazie a UniCredit. Ancora, gli oggetti quotidiani come presenze metafisiche nel lavoro di Steinbach, le superfici oscure di Agnetti, la Maternità di Pascali. I pezzi storici di Novelli e Leoncillo, Ceroli, Angeli. A chiudere idealmente il percorso, i virtuosismi hi-tech di Bill Viola. 

Negli spazi sopra la sala conferenze, spicca la scultura di Nick Cave, un umano che diventa anche feticcio festoso e inquietante. Lungo le passerelle sospese del foyer la grande opera nero e carbone di Cucchi, o il ritratto "molecolare" di Muniz. Per salire poi sulla superficie specchiante di De Marchi. Il bioritmo del foyer centrale è scandito dal nero del grande dipinto di Martin e dal monolite a parete di Nunzio, e nei video che si rincorrono nel Vtunnel: dall'autoritratto in Nauman, protagonista di fantasie cibernetiche in Paik, a Tuttofuoco fino a Gladwell. Infine, per i più feticisti del design, il Macro rivela molte bizzarrie, come la toilette: un ambiente specchiato con al centro un lavabo d'avanguardia quasi fantascientifica: un blocco dove passando le mani su varie fotocellule spuntano fontanelle d'acqua, sapone o i getti di vapore per asciugarsi, il tutto cambiando colore dal rosso dell'acqua al bianco del calore. 

Notizie utili - Macro, Museo d'Arte Contemporanea Roma, dal 4 dicembre. Ingresso Via Nizza, angolo via Cagliari, Roma.
Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 11 alle ore 22 (ultimo ingresso: ore 21)
Ingresso: sabato 4 dicembre 2010 lo spazio potrà essere visitato gratuitamente dalle ore 11 alle ore 22, previa prenotazione online sul sito www.macroeventi.org 2; dal 5 dicembre: €10 intero, €8 ridotto.
Info: 060608 - 06 671070400, www.macro.roma.museum 3

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

giovedì 9 dicembre 2010

Edward Hopper & C. così nasce l'immagine dell'uomo moderno

All'inizio del XX secolo artisti e fotografi americani escono dagli studi per raccontare la società in cui vivono. Una mostra a New York li celebra

L’arte non può essere separata dalla vita... ha per noi un valore non perché sia un prodotto d’ingegno, ma perché rivela l’esperienza umana», diceva sempre il carismatico pittore Robert Henri ai suoi studenti, tra cui Edward Hopper, maestro del realismo americano, ai primi del Novecento. Un periodo questo di straordinari cambiamenti nell’arte, nella cultura e nella società del Paese cui è dedicata la mostra «Modern Life: Edward Hopper and His Time», la prima su Hopper e i suoi contemporanei. Il 1900 con Theodore Roosevelt come Presidente, segna «un’era totalmente nuova in America», dice Barbara Haskell curatrice della mostra insieme con Sasha Nicholas. «All’improvviso il Paese è al centro della scena internazionale, la città di New York diventa il modello di un nuovo mondo, in cui persone di etnie e razze diverse vanno fondendosi. E vi è un generale senso di entusiasmo e di ottimismo che viene espresso dagli artisti di questo periodo, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale».

Nella mostra compaiono non soltanto i pittori della generazione di Hopper e quella precedente ma anche i maestri della fotografia di quel tempo come Alfred Stieglitz, Edward Steichen, Lisette Model e Paul Strand, che, tra l’altro, realizzò un film, insieme al pittore Charles Sheeler nel 1921, dal titoloManhatta (ispirato a Leaves of Grass di Walt Whitman). Apre la mostra, racconta una giornata in città e esprime con efficacia l’idea della «nuova America». E pittori come Ben Shahn, che qualche anno più tardi, nel ‘35, dopo aver assunto l’incarico di realizzare un reportage sugli effetti del New Deal, utilizzò le sue fotografie come modello per quadri, come Scotts Run, West Virginia, presente in mostra. 

«”Dipingi quel che senti, quel che vedi, quello che per te è reale” diceva Henri», racconta la Haskell. Questi artisti si ribellarono alla tradizione pittorica del loro tempo che celebrava aristocratici e potenti con ritratti idealizzati e vollero «uscire per la strada e dipingere quello che vedevano» e così insegnarono ai loro allievi. Henri fondò il gruppo «The Eight», più tardi soprannominato in modo dispregiativo «The Ashcan School», con un riferimento ai bidoni che raccoglievano la spazzatura, di cui fecero parte John Sloan, William Glackens, George Luks, Everett Shinn, Arthur Davies, Maurice Prendergast e Ernest Lawson.
Diedero vita al movimento realista che ebbe poi un largo e prolifico seguito. «Nel 1913 Roosevelt scrisse il bellissimo testo Dante and the Bowery, dice la Nicholas, facendo riferimento alla via simbolo dell’emigrazione europea a New York, che chiamò “una delle grandi strade dell’umanità...” di vita pulsante, di divertimento, di lavoro, di tragedie sordide e terribili». Gli americani avevano dipinto tutto fino ad allora: la natura, i ritratti della propria aristocrazia, ma mai le città, le strade, le persone, che ora invece diventano protagoniste. E in particolare il mondo degli emigranti, dei poveri e degli emarginati.

I pittori in mostra raccontano le strade del gioco d’azzardo e della prostituzione, i vaudeville, gli incontri di boxe, i tram affollati, i ristoranti, le osterie, gli interni delle case, con donne in sottoveste nell’intimità delle proprie camere, come in Turning the Light di John Sloan del 1905; i fotografi catturano i ragazzi che vendono i giornali, il brulicare delle strade e le navi cariche di emigranti come in The Steerage, forse la fotografia più importante di Stieglitz, del 1907. Ma anche quando dipinsero dei ritratti come nel caso di quello della grande mecenate Gertrude Vanderbilt Whitney, realizzato da Henri, diedero scandalo. «Quando suo marito lo vide, le disse che non era accettabile che venisse esposto nei saloni di casa e lei dovette quasi nasconderlo nel suo studio. Perché nel quadro compariva in pantaloni», racconta la Haskell. Molti degli artisti della «Ashcan School» e della generazione successiva provenivano dal mondo del giornalismo.
William Glackens era un illustratore per riviste e quotidiani, così come Hopper e Sloan. Lavorare come illustratori significava andare sul posto e tracciare un rapido schizzo dell’evento e poi fare affidamento sulla propria memoria e immaginazione. Presto poi tutti questi artisti abbandonarono il mondo dei giornali e si dedicarono completamente alla pittura. «Ma questa combinazione di osservazione della realtà, memoria e creatività è una tecnica che resta costante nella loro arte, in primis per Hopper», sottolinea la Haskell. A proposito di nuovi media, Hopper era particolarmente appassionato di cinema e si può certamente dire che uno dei tratti che rende unica la sua opera sia proprio la «cinematograficità». «La luce dipinta da Hopper ha una fisicità del tutto particolare e il pittore tratta i suoi soggetti come la macchina da presa». E, come in New York Interior (1921) sembra di trovarsi di fronte al soggetto raffigurato. «Questa mostra ci consente di guardare ad Hopper in modo diverso», spiega il direttore del Museo Adam D. Weinberg. E soprattutto, Hopper, già molto amato dal pubblico, come nota la Haskell, «sembra risorto a vita nuova, perché mai è stato accostato agli altri artisti e l’enorme vitalità che tutti insieme sprigionano è palpabile nell’aria». 

lunedì 6 dicembre 2010

Kapoor, Long e il sacro nell'arte d'oggi a Modena la religione fuori dagli schemi

Nella Galleria Civica, una mostra racconta il sacro nella contemporanea. Da Chen Zhen a Giovanni Anselmo, una riflessione anticonformista tra installazioni, video, sculture e "archi" sonanti


Il sacro nell'arte contemporanea non ha nulla di prevedibile, retorico, sentimentale o conformista. Ma diventa un gioco di camouflage, un palcoscenico di riflessioni esistenziali, una frontiera di impegno civile, ma anche un ritorno alle origini, un'esigenza primaria di fusione con la natura. A raccontarlo bene è la piccola grande mostra "Lo spazio del sacro" ospitata dal 5 dicembre al 6 marzo dalla Galleria Civica sotto la cura di Marco Pierini, articolata tra la nuova sede fresca di restauro, e quindi tutta da scoprire, della Palazzina dei Giardini, e a Palazzo Santa Margherita. Protagonisti sono dodici artisti di fama internazionale caratterizzati da una predisposizione personale alla riflessione sul tema del sacro, da Adel Abdessemed, a Giovanni Anselmo, da Chen Zhen, ad Anish Kapoor e Richard Long. 
Ognuno porta una propria opera-installazione che diventa un assolo ideale e intimo nelle parata di stanze monumentali intrise di sapore storico. Una soluzione, questa, che consente allo spettatore di affrontare l'opera nella sua totale complessità concettuale e prendersi la giusta pausa di meditazione che il lavoro suggerisce. Non c'è misticismo, non c'è ispirazione spirituale, solo arte allo stato puro che racconta la ricerca emotiva dell'uomo-artista. E il segreto sta tutto nel catturare queste dodici emotività. 

L'algerino Abdessemed, eclettico nelle sua forza artistica, propone "God is design", un video del 2005 composto da 3050 disegni che orchestrano diversi elementi simbolici religiosi dal Cristianesimo al Giudaismo all'Islam, per codificare un ideale esperanto della religione. Maestro dell'Arte Povera, Anselmo, lavora su elementi primari, apparentemente di natura opposta e quindi incompatibili, che cerca di assemblare per rivelare una loro affinità elettiva. Il franco-tedesco Kader Attia firma "Small History of a Myth: The Dome of the Rock", installazione multimediale che riproduce attraverso un dado e un bullone la Cupola della roccia di Gerusalemme, monumento emblematico ed evocativo dei conflitti interreligiosi, mentre l'egiziano Wael Shawky propone "Al Aqsa Park", un video del 2006 dove la Cupola della Roccia di Gerusalemme è vista come una trottola che ruota attorno al proprio asse, metafora che mette a fuoco il complesso equilibrio fra politica e religione. 

Sulla fluidità del tempo in rapporto allo spazio, gioca anche l'installazione del mantovano Paolo Cavinato, mentre il livornese Vittorio Corsini con "God Save The People", porta una scultura in legno laccato composta da quattro piante di altrettanti edifici di culto di diverse religioni, illuminata da una luce proveniente dall'interno. A evocare il rapporto profondo tra l'uomo e l'ambiente ci pensa un grande come Richard Long, che con il famoso "Arizona Circe" del 1987, utilizza i materiali raccolti nel corso delle sue passeggiate-performance solitarie per raccontare i segni essenziali e archetipici della vita, tra spirali e linee. Ecco poi lo spagnolo Jaume Pensa che con "Jerusalem" realizza una monumentale installazione composta da 18 gong disposti all'interno della Sala Grande di Palazzo Santa Margherita, ciascuno con inscritto un passo dal Cantico dei Cantici. Mentre nel chiostro dell'edificio incombe la grande sfera di Josep Ginestar composta da centinaia di impronte di mani, sagomate su metallo, dei frequentatori del Palazzo, che circondano una sfera dorata. 
Del grande Chen Zhen (scomparso nel 2000) spicca in una delle sale della Palazzina dei Giardini, la "Chairs of Nirvana", una cupola realizzata da sedie, e sempre qui l'anglo-indiano Anish Kapoor dona un suo tocco magistrale con un'installazione articolata intorno ad una sorgente di luce che diventa unico punto di riferimento all'interno dello spazio, un mise en scene di grande suggestione. Sospeso all'interno della cupola della Palazzina dei Giardini appare, poi, l'arco di sette metri e mezzo, in legno e metallo del riminese Roberto Paci Dalò che grazie ad un dispositivo produce un suono che si diffonde nello spazio. Un percorso dove le parole di Mircea Eliade suonano come perfetta didascalia: "il sacro, nell'arte contemporanea è divenuto irriconoscibile; si è camuffato in forme, propositi e significati che sono apparentemente 'profani'. Il sacro non è scontato, com'era per esempio nell'arte del Medioevo. Non si riconosce immediatamente e facilmente, perché non è più espresso attraverso il convenzionale linguaggio religioso".

Notizie utili  -  "Lo spazio del sacro", dal 5 dicembre al 6 marzo 2011, Galleria Civica di Modena, Palazzo Santa Margherita (corso Canalgrande 103) e Palazzina dei Giardini (corso Canalgrande). La mostra è organizzazione e prodotta dalla Galleria Civica insieme alla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena
Orari: martedì - venerdì 10.30 - 13; 15-18, sabato domenica e festivi 10.30-19, lunedì chiuso
Ingresso gratuito
Informazioni: tel. 059-2032911/2032940
Catalogo: Silvana editore

FONTE: repubblica.it

mercoledì 1 dicembre 2010

Rodin, genio sconcertante e vero a Legnano il suo romanzo di formazione

Nel Palazzo Leone da Perego, una grande mostra racconta la giovinezza e la formazione dell'artista. In scena, 120 opere quasi tutte inedite, dove spiccano i gessi originali, disegni e dipinti sconosciuti. Ma soprattutto, i capolavori della sua Porta dell'Inferno


Sconcertante, è l'aggettivo che spesso si usa per descrivere lo stile e il temperamento di Auguste Rodin. Perché, alla metà dell'Ottocento, è stato il grande rinnovatore nel profondo del concetto di scultura, pioniere di un ideale plastico che stimolerà conseguenze radicali nella scena artistica all'alba del nuovo secolo. Il suo credo  -  instillato anche dalla totale fascinazione per Michelangelo scoperto in un viaggio in Italia  -  era la veridicità della materia, riuscire ad esaltarne l'anima dinamica e palpitante, e a produrre un effetto di totale "sconcertante" autenticità. Il vero era il suo maestro, a tal punto che agli esordi della sua carriera venne accusato di eseguire calchi dei modelli. E questa sua dirompente personalità viene ora ripercorsa da una grande mostra "Rodin. Le origini del genio (1864-1884)", dal 20 novembre al 20 marzo nelle sale di Palazzo Leone da Perego, dove per la prima volta un repertorio specifico di centoventi opere per la metà inedite per l'Italia documentano il periodo cruciale di formazione di Rodin, dalla storica bottega di Carriere-Belleuse, dove conduce il suoi primi esprimenti, cavalcando gli anni Sessanta dell'Ottocento, fino alla progettazione della grandiosa, ricchissima e mai terminata Porta dell'Inferno del 1884 il suo vertice, summa del pensiero di questo scultore unico e straordinario. 
Progetto espositivo ambizioso, questo, frutto della collaborazione col Musée Rodin di Parigi, e curato da Aline Magnien e da Flavio Arensi. Chicca del percorso sono proprio le opere in scena. Delle 65 sculture, ben ventotto sono delicatissimi e prestigiosi gessi, ossia le creazioni originali di Rodin da cui si è poi realizzata la fusione in bronzo (prestiti eccezionali del Museo parigino mai concessi prima) tra cui spiccano il Giovanni Battista e il Pensatore (poi tradotto in dimensioni monumentali e trasformato in opera pubblica, talmente famoso da essere citato addirittura nella scenografia del film di "Batman Forever"). A questi si aggiungono ventisei disegni, altro contributo non trascurabile perché Rodin, all'esecuzione nella materia faceva precedere tantissimi disegni, eseguiti dal vero, per indagare "in profondità", come diceva lui stesso, il modello in tutte le prospettive possibili, sondando la molteplicità dei piani e la vitalità estetica del soggetto. 

Oltre a fotografie originali dell'epoca, sfilano anche diciannove dipinti inediti, sempre provenienti dagli archivi del Musée Rodin, per lo più vedute della foresta di Soignes in Belgio, "caratterizzati  -  come dice Arensi - da una particolare attenzione alla luce e da una pennellata veloce, in cui l'impasto del colore permane arioso, inerendo alla grande poetica di Jean-Baptiste Corot e Gustave Courbet". E arriva, infine, una scoperta recente ad opera di François Blanchetière, la Jardinière, ossia un vaso decorativo collocato sul celebre Vaso dei Titani, in verità un piedistallo. La mostra diventa così un viaggio insolito e affascinante nella giovinezza di Rodin, nato a Parigi nel 1840, allievo della Scuola imperiale di Parigi, iniziato da maestri assai in voga all'epoca come Jean-Baptiste Carpeaux, rifiutato più volte dall'Ecole des Beaux-Arts per il su ostile troppo lontano dai canoni accademici. 

La sua formazione si divideva tra l'attività di decoratore per mantenersi, con momenti di crisi (come quando morì l'amata sorella e si chiuse per due anni in una comunità religiosa), a momenti di fervida produttività. I lavori giovanili in mostra risalgono a quel '54 quando adolescente ritraeva familiari e amici, con exploit de L'Uomo dal naso rotto (L'Homme au nez cassé), nella versione originale in marmo del 1864, rifiutata al Salon di Parigi, scortato anche da una versione in bronzo del 1874. Si passa per la stagione di Bruxelles, all'inizio degli anni '70 con lavori di piccolo formato, tutte terrecotte, splendide nella loro primordiale eleganza e delicatezza. Si ritrovano i suoi splendidi d'après, i suoi omaggi ai maestri del passato mai visti in Italia, come Donatello, Michelangelo, Tiziano, realizzati durante il primo viaggio in Italia nel 1876, soprattutto a Firenze  -  dove rimase folgorato dalle porte che il Ghiberti aveva realizzato nel XV secolo per il battistero e che poi ritorneranno d'ispirazione per la sua porta monumentale che nel 1880 lo stato commissionò a Rodin. Ma è sullo sfondo di Parigi che si inanellano i più importanti capolavori di Rodin, da L'Età del Bronzo (L'Age d'airain), che scandalizzò il Salon, a Bellona (Bellone), San Giovanni Battista (Saint Jean-Baptiste), La Défense e ritratti di conturbante effetto, come quello del maestro Carrier-Belleuse. 
Dalla Porta dell'Inferno, le opere che l'hanno reso immortale, come il Pensatore (Penseur), nelle due versioni, quella nel formato originale per la Porta e il suo ingrandimento. In particolare, della versione di quasi due metri si presenterà il gesso: una concessione straordinaria da parte del Museo. Ancora, l'Ugolino (Ugolin), L'uomo che cade (L'Homme qui tombe), Eterna primavera (L'Eternel Printemps), Il Bacio (Le Baiser), La Donna accovacciata (La Femme accroupie), Fugit Amor, L'Adolescente disperato (Adolescent désespéré) per concludere con Le tre ombre (Les Trois ombres), e le due sculture Eva (Eve) e Adamo (Adam). Appendice assai suggestiva è la mostra su Camille Claudel e Auguste Rodin alla Banca di Legnano dal 22 novembre al 18 marzo. Personalità grandiose, legate da una turbolenta storia d'amore, con Camille che entrò ventenne nell'atelier di Auguste nel 1884. Sono le fotografie di Bruno Cattani, elaborò per conto del Musée Rodin nel triennio 1999-2001, a rievocare le opere dei due artisti in un afflato sentimentale.   

Notizie utili  -  "Rodin. Le origini del genio (1864-1884)", dal 20 novembre al 20 marzo 2011, Legnano, Palazzo Leone da Perego, via Gilardelli, 10. 
Orari: martedì-domenica 9.30  -  19, lunedì chiuso
Ingresso: € 9,00 intero, € 7,00 ridotto.
Informazioni: 02.4335.3522, www. mostrarodin. it 
Catalogo: Umberto Allemandi & C.

martedì 30 novembre 2010

L'ultimo mistero di Giotto svelato il codice nascosto

La medievista Chiara Frugoni analizza particolari finora trascurati nel ciclo di San Francesco. Oggi l'incontro nella basilica per spiegare la nuova interpretazione


C'è un Giotto sconosciuto dietro le storie di Giotto ad Assisi: nella magnifica narrazione per immagini, la cosiddetta Bibbia dei poveri che decora la basilica superiore della cittadina umbra, si possono leggere nuovi particolari, testi finora mai visti, accostando la lente d'ingrandimento ad alcuni dettagli, a immagini apparentemente minime che svelano notizie decisive dal punto di vista storico, filologico, iconografico. A cominciare dalla scritta, in lettere capitali gotiche, che papa Innocenzo III porge srotolandola a Francesco su un cartiglio: ma l'incontro tra il poverello di Assisi e il pontefice avviene nel 1209, quando la regola è ben lontana dall'essere approvata. Il testo che è evidenziato è quello della regola che riceverà la benedizione di papa Onorio III molto dopo, cioè nel 1223, a sancire l'inizio ufficiale dell'esistenza dell'Ordine francescano e che inizia "Talis est regula et vita minorum fratrum...". 

È uno dei colpi di scena individuati da Chiara Frugoni, docente medievista e forse la maggiore studiosa di Francesco, nella sua "Guida alle storie francescane" in cui scena per scena, si chiosano le "favole" giottesche, si rileggono tutti i testi che commentano ciascun quadro del ciclo, trascrivendoli e reinterpretandoli. Si scopre così una sequenza di complicatissime storie nelle storie, di immagini create in una stratificazione infinita di simboli, per lo scopo ultimo di glorificare l'ordine francescano oltre che il suo fondatore, in particolare nel momento del papato di Niccolò IV, primo pontefice appartenente all'ordine, dal 1288 al 1292.

Sono novità intorno a un ciclo pittorico che risale al pieno Duecento, concepito a partire dall'abside per poi tornarvi girando intorno alla navata, perché da lì faceva ingresso il pontefice: che è come dire Francesco è partito da Assisi e, assurgendo al soglio papale un uomo del suo ordine, arriva a Roma, massimo traguardo spirituale. Ancora, un dettaglio dà il senso ultimo e celebrativo degli affreschi della Basilica superiore: nella scena "La liberazione dell'eretico Pietro da Alife" dovuta all'intervento dal cielo di San Francesco, il prigioniero fuoriesce da una colonna coclide, citazione medievale della colonna Traiana. Ma il vescovo che testimonia il miracolo altri non è che Giacomo Colonna, della potente famiglia protetta da Niccolò IV, ciò che spiega l'allusione con lo strano edificio a colonna, appunto. Dunque, il ciclo di Giotto (o chi per lui...) celebra Francesco ma implica anche l'autoglorificazione dell'ordine e quella del pontefice, essendo destinata ai frati mentre il ciclo della parte inferiore era rivolto ai fedeli.

Della "Guida alle storie di Francesco" (Einaudi) si parla alle 17 di oggi nella Basilica superiore di San Francesco in un incontro con Chiara Frugoni, Antonio Paolucci e Franco Cardini, "Un appuntamento - commenta padre Giuseppe Piemontese - che è un momento di approfondimento per gustare attraverso l'arte la via della bellezza che conduce sulle strade di Dio indicate da Francesco". 

FONTE: Francesca Giuliani (repubblica.it)

venerdì 19 novembre 2010

Il '900 italiano sposa il Kalevala

L'Ateneum ospita la collezione Pieraccini


Detta così, la formula «Italian Mestareita 1900-luvulta», può suonare anche misteriosa, se non minacciosa. Ma appena entri nelle sontuose sale dell'Ateneum di Helsinki l'aria d'Italia, dell'arte d'Italia, ti trascina di elegante sala in sala, con l'ansia di scoprire tanta ricchezza, e di capire da chi proviene questa coerente polifonia di voci. T'imbatti subito nei timpani di Burri e di Afro, le trombe di Soffici e il saxofono roco di Ferroni, riconosci il corno ironico di Gentilini, il contrabbasso etrusco, sopito, di Campigli, le strappate dodecafoniche di Capogrossi o gli arpeggi sommessi di Morandi.

Anche nella regale presentazione ufficiale della mostra, tra ambasciatori, ministri, curatori, in questa lingua geroglifica, in cui ti adagi senza decifrare nulla, senti solo affiorare, con deferenza, e citati percussivamente, i nomi riveriti dell'Italia e dei nostri artisti più illustri, talvolta declinati, da Carràn a de Chiricon, da Manzù a Capogrossi a Severini, e poi continuamente lampeggia il nome di Rolando Pieraccini e di sua moglie Siv, finlandese. Ecco svelato l'arcano: sono loro i munifici donatori di questo tesoro d'arte moderna italiana, 724 pezzi di 42 artisti sceltissimi, che vanno ad arricchire le collezioni del più autorevole museo di Helsinki. Che oltre ai maestri di rito dell'avanguardia storica ci fa conoscere pure l'epico, tonitruante, geniale Gallen-Kallela, cantore del Kalevala, il visionario simbolista Hugo Simberg, il virtuoso salottiero Albert Edelfelt. Ma i nostri grandi si fondono qui con grande naturalezza: la naturalezza dell'esperanto artistico, che non conosce barriera.

Nato a Pesaro, studi a Urbino, Pieraccini è entrato presto a contatto con la scuola grafica di Urbino, come a dire Castellani, Battistoni e Bruscaglia e dunque la «malattia della carta» lo ha colpito assai presto (prevalentemente con grafiche e disegni, oltre che con la collezione di lettere di Rossini, Baudelaire, Proust, Fitzgerald). Creatore d'una raffinatissima collana di volumi in edizione limitata di 350 copie tutte firmate e datate dagli autori (da Ionesco a Graham Greene, da Roth a Mailer a Sciascia) ha seguitato a raccogliere opere d'arte, conoscendo tutti gli imprescindibili maestri, di cui mostra rari strappi d'epistolario. E una predilezione anche per i piccoli grandi maestri, dalla Galli a Manaresi, meglio se di vena visionaria, come Viviani, Diamantini, Enzo Bellini o Morena. Ottima presenza torinese, con rari fogli acrobatici di Casorati, i colori marini di Paulucci, le penombre crepuscolari di Calandri.

MAESTRI ITALIANI DEL '900
HELSINKI. ATENEUM.
FINO AL 16 GENNAIO

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

domenica 14 novembre 2010

Quel danese sbarcato sul Mar Ligure A Roma il periodo italiano del Cobra

Alla Galleria nazionale d'arte moderna, una grande mostra racconta il movimento ricostruendone il periodo in cui i fondatori Jorn e Dotremont sbarcarono in Liguria ad Albisola su consiglio di Baj. E i laboratori di ceramica divennero una fucina rivoluzionaria

Il Cobra non è un serpente, verrebbe da citare una canzone storica di Donatella Rettore. Cobra fu un movimento fondato a Parigi nel 1948 sulle ceneri del surrealismo e dell'espressionismo, capeggiato da un gruppo di artisti provenienti, come decideranno di evocare nell'acronimo, da Co-penhagen, Br-uxelles e A-msterdam. In fondo, come sempre accade nelle avanguardie, Cobra aveva un animo romantico, puntava a recuperare una primigenia felicità creativa e fantastica, a sublimare una visione interiore emotiva, a dare voce alla "nausea" esistenziale reduce dalla seconda guerra mondiale attraverso la violenza del gesto pittorico (che auspicava l'implicazione del corpo nel dipingere), il disprezzo assoluto della forma e la libertà sfrenata del colore.

Nemici apocalittici per Cobra non potevano che essere l'astrazione geometrica di stampo razionalista ("riempiremo la tela vergine di Mondrian" dichiarava Constant) e il funzionalismo architettonico. Un filo rosso che attraversava Cobra erano quelle figure di zombi inquietanti che annaspavano nella profondità magmatica delle tele. A guidare Cobra c'erano gli olandesi Karel Appel, Constant e Corneille, il danese Asger Jorn, il poeta belga Christian Dotremont, cui si aggiungevano poi Serge Vandercam e Pierre Alechinsky che più tardi dirà come Cobra sia "passato vicino a Pollock senza vederlo, quasi vicino a Dubuffet e lontano da Michaux". L'avventura si esaurì ufficialmente nel 1951, il gruppo si sciolse ma solo apparentemente come un fallimento.

Esiste, infatti, un "Cobra dopo Cobra", un capitolo forse meno noto, che vede l'Italia protagonista, con Albisola Marina, una deliziosa cittadina della Riviera Ligure, dove già trascorreva l'estate Lucio Fontana, e dove si diedero appuntamento i transfughi del gruppo originario (merito anche della salubrità del posto, poiché Jorn e Dotremont si ammalarono di tubercolosi) trasformandola dal '54 in un centro febbricitante e rivoluzionario all'insegna nientemeno che della tradizione locale della ceramica rigorosamente policroma. Ed è quello che racconta la bella mostra  "CoBrA e l'Italia", dal 4 novembre al 13 febbraio alla Galleria nazionale d'arte moderna, realizzata in collaborazione con l'Ambasciata del Belgio e l'Accademia Bellica, su progetto scientifico di Denis Laoureux, e la cura di Matilde Amaturo.

Personaggio strategico di questo approdo epico fu il nostro Enrico Baj che proprio nel '51 aveva fondato a Milano il Movimento Pittura Nucleare, presentato l'anno seguente a Bruxelles con Sergio Dangelo, esteticamente ed emotivamente vicino a Cobra nel cantare il malessere da una catastrofe atomica. Fu Baj a consigliare ad Asger Jorn di scendere in Liguria dopo il suo ricovero coatto di due anni presso un tubercolosario svizzero. La proposta fu subito sposata e l'attività di Jorn invase letteralmente i laboratori di ceramica di Tullio Mazzotti detto Tulllio d'Albisola per poi allargarsi anche a quello San Giorgio dei fratelli Poggi. La fucina non rimase un luogo isolato perché ben presto attirò tante altre personalità che avevano costituito il Dna di Cobra, più nuovi adepti. Come Vandercam, Wyckaert, Alechinsky, Van Lint e Doucet. E' nel '54 che Jorn lancia Gli incontri internazionali della Ceramica ad Albisola. Basti solo pensare che vi partecipano Appel, Corbeille, Baj, Fontana, Dangelo, Scanavino, Matta, per citarne alcuni.

Per la ceramica della tradizione artigianale fu una rivoluzione, gli impasti cambiano la natura della terracotta, piatti e vasi rotti decretano nuove forme, vengono coinvolti anche bambini per liberare la loro fantasia sulle decorazioni e i grandi maestri lavorano anche a quattro mani. Nel '55 Jorn conosce Pinot Gallizio (chimico-farmacista-archeologo-botanico-nomade, per usare tanti termini amati da Jorn) e insieme a Piero Simondo fondano il Laboratorio sperimentale del Movimento internazionale per un bauhaus Immaginista", che puntava a rivitalizzare la creatività iniziale del Bauhaus quando era contrassegnata da personalità come Kandinsky e Klee. Tutto questo lo racconta la mostra articolando il suo fitto percorso in tre capitoli che parlano di artisti, di amicizie, di sinergie e vita comune. Il primo indaga le opere di Jorn, Appel e Corneille ad Albisola con particolare attenzione al confronto fra la produzione di Jorn e quella di Baj e Dangelo. Poi si scava nell'esperienza italiana di Vandercam, Wyckaert, Alechinsky, Van Lint e Doucet. Infine si rilancia l'anima di CoBrA recuperando l'esperienza post'54 di Dotremont, presentando le opere ibride di Dotremont e Vandercam e la ritrovata figuratività di Alechinsky.

Notizie utili  -  "CoBra e l'Italia", dal 4 novembre al 13 febbraio 2011, Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma.
Orari: martedì - domenica dalle 8.30 alle 19.30 (la biglietteria chiude alle 18.45) chiusura il lunedì.
Ingresso: Intero €10, ridotto €8.
Informazioni: 06 32298221
Catalogo: Electa.
 
FONTE    Laura Larcan    www.republica.it

mercoledì 10 novembre 2010

I dipinti solari dell'autore dell'Urlo

Per non deludere i visitatori, all'entrata spiegano: «Qui non c'è l'Urlo», la celebre opera-simbolo che Edvard Munch creò anticipando l'Espressionismo e l'arte a venire, rubata a Oslo nel 2004 e poi recuperata per non abbandonare mai più il Munchmuseet. Parecchie sono tuttavia le sorprese e gli aspetti stimolanti della mostra: opere dai colori solari, nonché quadri e disegni ardui da rivedere in futuro. Infatti questo notevole omaggio, il primo in Olanda, in collaborazione con la Pinacothèque di Parigi, allinea 150 dipinti e carte, in buona parte da collezioni private. Specchio dei nostri incubi, ansie, inquietudini, Munch conosce speciale fortuna in questi anni come riflesso di sentimenti che attraversano il mondo, sicché viene spesso celebrato in antologiche per l'Europa e per gli Usa.

A differenza della mostra italiana di Codroipo, Rotterdam propone il solo Munch, senza comprimari. Un viaggio nelle opere del pittore che esplora temi centrali come vita e morte, declinati in tandem con amore, gelosia, solitudine, paura. L'artista trova conforto nell'ispirazione letteraria, dapprima con Strindberg e Ibsen. La visita procede con l'esplorazione dei tagli compositivi arditi, linee fluide, colore sorprendente nelle prove meno consuete, più solari. Così nelle vaste sale della Kunsthal la prima sensazione è di ammirare paesaggi luminosi, chiari, inondati dal sole come Raccolta del fieno 1907, e lo splendido Tronco giallo, 1912, che si impone per la luce nella foresta. Immagini femminili affogate nell'intenso azzurro, fra mare e cielo, paiono muoversi in Donna con cappello rosso sul fiordo, 1891.



A partire dalla prima esposizione alla Verein Berliner Künstler nel 1892, quando provocò scandalo, sino alle prove ultime del 1944, nell'opera di Munch tutto si intreccia: amici, letterati, case e studi dove abitò, committenti come Albert Kollmann, l'amore per Tulla Andersen, viaggi, malattie. Tappe speciali sono il superamento del Realismo, a favore di Postimpressionismo e Simbolismo. Movimenti ammirati in Francia tra il 1889 e '92, guardando a suo modo Van Gogh, Seurat, Signac, Lautrec, Baudelaire e i suoi Fleurs du mal dai quali promanano l'ossessione per le chiome femminili e la donna vampiro, come in Vampir II, versione litografica, 1895. è risaputo che l'artista tornava in più versioni sul medesimo tema con tecniche differenti, come fece con Bambino malato, L'Urlo, e Madonna, la famosa serie di incisioni (qui appare Madonna col feto 1893, e una versione del 1895). Né possono mancare i ritratti, Munch era al tempo ritenuto un noto ritrattista, fra gli altri compaiono il busto di Fritz Frölich del 1931 e numerosi intensi Autoritratti. Poi è un succedersi di nudi, Pubertà del 1914-16, Ora inginocchiata, 1922 e la mirabile Ora piangente, 1914-19.

EDVARD MUNCH
KUNSTHAL, ROTTERDAM
FINO AL 20 FEBBRAIO

FONTE: Fiorella Minervino (lastampa.it)

mercoledì 27 ottobre 2010

Osvaldo Licini, l'angelo ribelle sulla via dell'astrazione

Alla Gam di Torino una retrospettiva ripercorre rabbie e visioni del cosmopolita pittore marchigiano


Telegramma inviato da Licini come nel vuoto, nel 1941 «Impossibile venire, sarò presente in sogno. Ti autorizzo a firmare per me». Ci si domanda come avrebbe reagito, il dolce-bizzoso pittore, magari filtrato in groppa a un Angelo Ribelle o al Cavaliere di Münchhausen (che s’acciuffa e si solleva per la sua parrucca) di fronte a questo coraggioso allestimento «come precario». Che lo ghiaccia in un bianco primario e nudo, un po’ desertico-eremitico, e va benissimo (le sue opere affiorano come sassi aguzzi nel Cocteau dell’Angelo Hurtebise, avvolti in una neve puritana e di grado zero, che cancella le pretenzioni degli «ismi» manualistici e le saccenterie della critica), ma anche un poco infermieral-chirurgico. A spiegare anche il radicale lavoro di bisturi del curatore Eccher, affiancato da un regale parterre di liciniani comprovati, da Zeno Birolli (che cura anche l’importante sacello documentale) a Caramel, da D’Amico a Riccardo Passoni, erede della mostra curata dal padre, alla Gam, nel decennale della morte del ’58. Via dunque la cavalcata cronologica, via il senso intimistico dell’esporre, protetto dai siparietti sapienti, vie le premesse storiche d’un pur interessante e creativo periodo figurativo («relegato» volutamente nel sancta sanctorum, conclusivo, dei documenti). Via soprattutto i dubbiosi momenti, le diteggiature nodali di passaggio epocale (anche se tutto per Licini era dubbio e ripensamento cartesiano - nel senso anche di ripresa continua delle sue opere più nevralgiche: perennemente aperte). 

Nella stanza centrale del primo piano della Gam, completamente sventrata e neon-snudata di luce zenitale, l’allestimento di Rino Simonetti ricorda l’opera-chiave di Beuys Fine del XX secolo: non sai se la mostra sia ancora in via di allestimento o già di smontaggio. Ma pur nell’esattezza calcolata e geometrica delle tele, che si rispondono guerrescamente, si respira comunque questo clima di precarietà aleatoria, sottolineata anche da quelle pareti mobili, che non sono pareti, ma retri di grandi tele, appoggiate in bilico, che fan molto atmosfera di studio: di atelier perenne. Come penetrando dentro la vita schiva dello stilita di Monte Vidon Corrado. E probabilmente Licini avrebbe protestato il termine stesso, quasi crociano, di «Capolavori», lui che scriveva, agli amici ancora inconosciuti della Galleria del Milione, ma «fratelli in spirito» dell’avventura astrattista: «E poi vi avviso, i miei capolavori sono ancora tutti da fare, ne tengo più d’uno in cantiere, ma non sono ancora pronti per scendere in mare». 
Accettiamo dunque quest’immagine del cantiere navale prima d’ogni varo ufficiale, quest’aria di provvisorietà consustanziale, e godiamoci quest’atmosfera libera, sfondata, in cui le tele possono espirare sfrontatamente il loro ossigeno d’alta quota mentale (talvolta hai davvero l’impressione che nella loro craquelure screpolata, queste superfici celesti, astrali, ansimino ancora e ridacchino, blasfeme, come poggioli scollacciati di Amalassunte postribolari, complice l’amato Baudelaire). 

O non era lui a dire, in rivalsa ai realisti engagés, che lo accusavano di decorativismo e di purismo evasivo: «A che cosa serve un quadro, se non a rallegrare una parete?». Certamente, ma sempre dalla parte di un’allegria di naufragio, di una «gaia» scienza, succhiata dal suo amato Nietzsche (ma qui si deduce, nelle casse d’imballaggio per i quadri, trasformate in vetrine preziose, quanto leggesse anche Giordano Bruno e il Feuerbach sul Cristianesimo, Kafka come Bacchelli, Marinetti insieme a Soffici, Mallarmé come Gordon Craig: il rivoluzionatore principe del teatro, il nullificatore, insieme ad Appia, degli orpelli, dei fantasmi di scena). E perfino un folle librino medico su «Un grande allucinato dell’udito: Martin Lutero»! Sì, a ben vedere, c’è qualcosa sempre di visionario e di luterano (sbattezzato) in lui, quasi alla soglia del totale azzeramento, dell’iconoclastia pura: via l’immagine! lasciamo solo, sulla lavagnetta del morboso piacere cerebrale, i segni mentali e diagrammati di un sogno che non è onirico, e non proviene dalle trippe bretoniane dell’inconscio («Il surrealismo a modo mio») ma dai capricci (d’un vegliardo, alla Barilli: Bruno, l’olandese volante, non Renato!) di una ragione immaginosa e ferocemente allucinata. «Dicono i preti che adesso io faccio della pittura cerebrale. Che cosa dovremmo fare, della pittura intestinale?». Eppure, in questa ascesa verso la via regia e senza remissione dell’astrazione più radicale (vicina soprattutto alla fantasia iningabbiabile di un Soldati o Magnelli, certo non ai rigori della squadretta dei geometri di Como, Rho e Radice) qualche resto fecale, sottotraccia, della sua vecchia pittura morandiana e leopardiana permane, invincibile, in apnea. 

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)