giovedì 29 aprile 2010

Carlo V, l'armatura fa l'Impero


Al Museo del Prado una grande mostra sui simboli del potere tra arte e artigianato

Alla faccia della crisi! L’elettrizzante mostra al Prado su El arte del Poder, mette in gioco un tale sfarzo ed un deflagrare così coreografico d’immagini fastose che noi poveri papalini-sabaudi nemmeno a sognarlo! Per la prima volta, e l’idea è assai feconda, si mettono in dialogo, quasi a riverbero, i tre motivi considerati più regali dello status symbol monarchico-imperiale: e cioè l’armatura, gli arazzi, la pittura. Buon’ultima: perché, a rimbalzo simmetrico della nostra modernità, la pittura era considerata una componente secondaria, che collaborava certo al tramando dell’imago regale, ma non certo come una corazza, lavorata nelle botteghe principesche di Milano o di Vienna, e bagnata talvolta dal sangue simbolico d’una storica battaglia. Meno dei sontuosi arazzi dinastico-celebrativi, che venivano da Bruxelles (su disegni di venerati maestri, come Raffaello o Giulio Romano. Ma qui c’è la prova che anche scudi ed elmi avevano alle spalle gli stessi «progettisti» sommi). 

Oggi, stoltamente, snobbiamo le armerie reali, ed è un errore, perché ogni volta che ci vien fatto di confrontarci con questi tumultuosi racconti allegorici di Colonne d'Ercole infrante e di mitologiche imprese, la sorpresa e l’incanto risultano altissimi. Ma quest’intelligente e innovativa mostra, curata da Alvaro Soler del Campo e che proviene da Washington, con la nomea cavalleresca d’un successo imprevisto, non si limita solo all’incanto estetico, che pure è palpabile, ma dimostra quando l’arte debba allo studio delle armi, e quanto le armi abbian influito sull’arte e contribuito ai suoi significati: realtà abitualmente trascurata dall’iconologia. Brilla, in mezzo alla sala introduttiva, una mitica celata splendente, destinata a Carlo V, dalla premiata ditta «mediolense» (così si firma, con elegante cartiglio) dei Negroli. Non latitano che i suoi occhi di bragia: l’elmo bucato ricoperto di riccioli d’oro, le orecchie d’acciaio. La sua presenza magnetica è come evocata in absentia. Ma in un'altra «borgonota» o elmo da guerra, senti già odor di battaglia. Un negro, nudo di bronzo, arrovesciato sulla calotta istoriata, lascia fiorire due grandi baffoni da turco (è il simbolo dell’Islam vinto, infatti) imbrigliati da due dame allegoriche, la Vittoria e la Fama. Qui davvero l’arte (del cesellatore virtuoso) è tutta al servizio della propaganda politica. E non stupisce che lo stesso elmo riverberi nella pittura vibratile di Velázquez, a pochi passi (la novità eccelsa di questa mostra, rispetto a Washington, è che qui sono miracolosamente balzati, alla ribalta, dei capolavori inamovibili, di Tiziano, Moro, Rubens, Velázquez, appunto). 

Lo si ritrova, l’elmo, depositato sul capo di Marte e dipinto alla fulminea, da Velázquez. Marte appare un soldato in pensione che ha smesso da troppo tempo esercizi ed anabolizzanti, il classico gesto melanconico della mano, che sostiene il capo pesante e l’elmo smidollato, che pare un amaro cotillon. Siamo ormai all’epoca di Filippo II, il figlio di Carlo V che rifiuta d’andare in battaglia (e alle disfide decisive ci spedisce il fratellastro, Giovanni d’Austria). Riflessivo, non amava troppo le armi, e dicono che, caduto da cavallo, esclamasse: «basta, armature!». Preferì accreditarsi piuttosto come il «Re papelero», il Re delle scartoffie e della buona amministrazione: Primo Impiegato di stato. Anche quando si siede, goffo, in una sorta di tête-à-tête psicoanalitico con il padre, armato invece di tutto punto, pronto a scattare al richiamo del corno di guerra, lui prende pose femminee, calze di seta e scarpini da ballo, e quanto gli va stretto, quel poco di corazza che si concede! I pittori più prensili fiutano l’impaccio. Come Tiziano, che preferisce approfondire l’arma del volto e della psicologia e non ha nessuna cura filologica nel ritrarre le corazze (mentre si mostrano qui i pass nominali di Rubens e Velázquez, che sfilano diligenti in armeria, per copiare). Eccolo lì, il Re Papelero, le labbra carminio da sciantosa, gli occhi febbrili di assenzio, ad indossare la sua leggendaria armatura «a fioritura», della battaglia di San Quentin. 

Che costumi diversi, dal padre Carlo, che andava di persona in guerra, per battagliare. Anche se nel regale ritratto per la battaglia di Muehlberg, che sgomina la lega protestante di Smalkalda, non resta che la posa romana, a cavallo (omaggio a papà Massimiliano d'Asburgo) e la celeberrima corazza, approntatagli da Desiderius Helmschmid. È vero, se non ci fosse quella lancia (che ricorda il Miles Christianus, secondo i dettami di Erasmo, e la lancia di Longino, che trafisse il costato di Cristo) potrebbe passar davvero per una passeggiata refrigerante, in un crepuscolare boschetto giorgionesco. Ma l’iconologo Panofsky ne ha spiegato le ragioni: Carlo V sbaraglia la lega protestante, ma non vuole innescare una guerra di religione, anzi, si pone come il Re Prudente che cerca, senza riuscirci, di far dialogare i due mondi religiosi. La corazza basti, dunque, quale simbolo politico eloquente. La recente ripulitura svela un altro dettaglio eloquente. Non è una sporgenza di sella, quella che dipinge Tiziano, bensì una delle sue varie pistole, amate come levrieri, a dire la doppiezza di Carlo, cavaliere antico eppur fanatico dell’ultima tecnologia, a polvere da sparo. Dopo di lui, la sua stessa simbolica corazza passa a nobili guerrieri (che liberano Genova dal giogo franco-sabaudo o «bonificano» Napoli da Masaniello) poi giunge, come una corona dinastica, alla stirpe dei Borboni. Anche Luigi XIV, Re Sole, l’indossa, ma è ormai un accessorio vezzoso, sepolto da sete e piumaggi. E l’incedere marziale di Carlo si trasforma in un passo di minuetto, alla Lully. 

FONTE: Marco Vallora (ilsole24ore.it)

mercoledì 28 aprile 2010

Giù dal fossato spuntano emozioni


Dalla Holzer a Vautier contemporanei nel castello Svevo

Maestoso e apparentemente inespugnabile, il Castello Svevo di Bari si riflette negli specchi rotti di Alfredo Pirri che si estendono per 600 mq lungo la superficie del fossato. L’immagine ritorna frammentata e fragile come quella di un gigante rotto. «Di sopra giù nel fossato» è il titolo di una mostra urbana - curata da Achille Bonito Oliva con Giusi Caroppo e coordinata da Paola Marino - che ristabilisce un rapporto diretto tra il castello e la città. Con la nuova prospettiva, obliqua e squilibrata (lo sguardo da sopra), la storia è temporaneamente vissuta con gli occhi e i colori della contemporaneità. I passanti sono catturati di notte dalle parole «politically correct» di Jenny Holzer che corrono luminose sulla torre. I neon gialli rossi e blu di Maurizio Nannucci, tracciano una linea continua di parole inglesi come fossero un’anomala insegna pubblicitaria: «L'arte deve essere astratta, in movimento e dare piacere». La sorpresa è anche audio: dal ponte levatoio giungono i rumori di Jimmie Durham e, più in là, la voce roca e sensuale di Vito Acconci. Ma non è importante coglierne il senso, basta la sonorità delle parole. Costeggiando la fortezza, il visitatore/passante cattura frammenti di video proiettati sulle mura: dalle foreste nebbiose di Maria Theresa Alves alla camminata sulle acque di Francesco Schiavulli che ha esposto anche rudimentali macchine per emozioni. 



Dall’alto del torrione, i cannoni di Lara Favaretto sparano coriandoli sui passanti come una pioggia leggera e dolce. «Se l'arte seduce e crea inciampo, in questa mostra c’è l’autodifesa per la quale l’osservatore stando in alto non si fa schiacciare dall’opera», affermato Abo. E poi ci sono oggetti fuori scala come gli enormi letti duchampiani di Luca Patella, le gigantesche palle fatte da Maurizio Mochetti, i soldati di Subodh Gupta, i falchi di Federico II celebrati da Marco Bagnoli e la frase di Ben Vautier che scende dall'alto della palma: «L’arte è inutile». Le luci del giorno e della notte, il clima e le nuvole, trasformano continuamente la mostra, il suo disegno poetico e dolce.

DI SOPRA GIÙ NEL FOSSATO
BARI, CASTELLO SVEVO
FINO AL 16 MAGGIO

FONTE: Manuela Gandini (lastampa.it)

martedì 27 aprile 2010

TRICKY

Inaugura la rassegna estiva di Musica per Roma 
Luglio Suona Bene 2010
SABATO 26 GIUGNO ORE 21 - CAVEA DELL'AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA DI ROMA
 
Da domani, mercoledì 28 aprile, in vendita i biglietti


Apre Luglio Suona Bene il musicista e producer inglese Adrian Thaws, in arte Tricky, noto ormai in tutto il mondo per il suo stile vocale tra cantato e parlato che si richiama allo  sprechgesang e per il suo sound cupo e stratificato. Insieme ai Massive Attack e ai Portishead ha fatto la storia del genere Trip Hop, genere che affonda le sue radici nella musica elettronica, nell'hip hop, nell'house inglese, nel dub e nella musica psichedelica.  Adrian Thaws inizia la carriera prestissimo con il gruppo dei Fresh 4, un gruppo rap nato come filiazione del sound system The Wild Bunch, collettivo di Dj residente a Bristol. Con lo scioglimento del gruppo, nel 1987, da tre dei componenti nascono i Massive Attack, dai quali Adrian si divide subito iniziando a lavorare da solista con il nome d'arte "Tricky Kid". Tricky aveva ha anche partecipato come voce in alcuni brani del primo album dei Massive Attack, Blue Lines del 1991. Prima della pubblicazione dell'album d'esordio dei Massive Attack, Tricky conosce Martina Topley - Bird, con la quale registra una canzone chiamata Aftermath.  Presenta il brano ai Massive Attack, ma non essendo interessati, decide nel 1993 di inciderlo su vinile in qualche centinaio di copie. Da qui inizia ad apportare modifiche ai suoi brani, rendendoli un insieme di "soli bassi e fruscii". Infine firma un contratto con la Island Records per un white label, iniziando così la sua carriera, che lo porterà subito ad un successo internazionale. Nel 1996 pubblica il suo secondo album, Nearly God al quale partecipano Neneh Cherry e Björk come voci in alcuni dei suoi pezzi. Il brano di apertura è una cover di "Tattoo" degli Siouxsie & the Banshees brano che ha aiutato Tricky a forgiare il suo stile personale. Nell'arco della sua fortunata carriera Tricky ha pubblicato 9 album, numerosi singoli e remix diventando anche uno dei più importanti produttori di musica trip hop e sperimentale a livello internazionale. Il suo ultimo singolo Council Estate in cui è presente solo la sua voce, contenuto nel suo ultimo album Knowle West Boy è stato realizzato utilizzando il brano Roads estratto dall'album Dummy dei Portishead.
Tricky ha inoltre realizzato brani per le colonne sonore del film La regina dei dannati nel 2002 e per alcune note serie televisive come CSI: Scena del crimineThe L. Word e Girlfriends.

BIGLIETTI: 22 EURO

            Info 06-80241281                    
Ufficio stampa Musica per Roma tel. 06-80241574 - 231 - 228

sabato 24 aprile 2010

Nuovi appuntamenti per gli amanti del jazz:



JAZZ AL CENTRO
AL CENTRO DEL JAZZ

tutti i giovedì di maggio al Cinema Farnese Persol
Campo De’ Fiori – Roma

il jazz incontra grandi colonne sonore di classici del cinema italiano

giovedì 6 maggio 2010 – ore 22.30

1° tempo
ENRICO PIERANUNZI
presenta il suo nuovo disco: conversazione con VITTORIO CASTELNUOVO
2° tempo
MARCELLO ROSA & RICCARDO BISEO
ispirati da I soliti ignoti

I soliti ignoti (1958, regia di Mario Monicelli, musiche di Piero Umiliani, con Vittorio Gassman e Totò). Cinque ladruncoli della periferia romana  pianificano un colpo ai danni di una agenzia del Monte dei pegni.

Per chi vuole conoscere Wandering, il nuovo disco di Pieranunzi tra la creatività e il lirismo del suo piano solo e poi assaporare le atmosfere della Roma de I soliti ignoti, attraverso le note di due protagonisti del panorama jazz attuale quali Rosa e Biseo.

giovedì 13 maggio 2010 – ore 22.30

1° tempo
IVAN VICARI AFRO HAMMOND JAZZ
guest: KARL POTTER
2° tempo
RICCARDO FASSI & ANTONELLO SALIS
ispirati da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970, regia di Elio Petri, musiche di Ennio Morricone, con Gianmaria Volontè e Florinda Bolkan). Il capo della sezione Omicidi, uomo all'antica e reazionario, uccide la sua amante e, promosso al comando dell'Ufficio Politico della Questura, indaga su se stesso.

Un’indagine sulla musica al di sopra di ogni sospetto per farsi attraversare dalla scossa afro dell’hammond di Ivan Vicari e dalle calde percussioni di Karl Potter e poi essere sorpresi dalle ispirazioni avanguardiste del duo Fassi-Salis.


giovedì 20 maggio 2010 – ore 22.30

1° tempo
ACUSTIMANTICO
2° tempo
GABRIELE COEN JEWISH EXPERIENCE
ispirati da  ½

½ (1963, regia di Federico Fellini, musiche di Nino Rota, con Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Sandra Milo). Guido Anselmi, un affermato regista di quarantatré anni, cerca di realizzare il suo prossimo film.

Un viaggio nella musica partendo dalla tradizione italiana fino ad arrivare più in là, verso i paesi balcanici, in una ricerca accurata delle avant-garde europee… e poi un tuffo nel Klezmer, una delle anime del patrimonio musicale ebraico.


giovedì 27 maggio 2010 – ore 22.30

1° tempo
TRIO FILANTE MAZZEOGROTTELLIGWIS
2° tempo
JAC BAND jam session degli artisti di
JazzAlCentro diretta da MARCELLO ROSA 
ispirati da Il viaggio di Capitan Fracassa

Il viaggio di Capitan Fracassa  (1963, regia di Ettore Scola, musiche di Armando Trovajoli, con Massimo Troisi e Ornella Muti). Nella Francia del XVII secolo, Pulcinella narra la storia di una compagnia di comici in viaggio verso Parigi.

Serata conclusiva piena di energia. Sul palco del Cinema Farnese saranno protagonisti ritmo e intrecci di stili. Jazz al Centro affida il saluto finale all’entusiasmo di una band per celebrare la rassegna con lo strumento più tipico del Jazz: l’improvvisazione che scaturisce nel momento della jam session guidata da un grande maestro.

Biglietti. Il costo del biglietto è di 10 euro (+ 2 euro di prevendita) per ogni serata.

Tessera JACLa tessera ha un costo di 30 euro e dà la possibilità di assistere a tutta la rassegna.


FONTE: Rosa Picoco - Metromorfosi, vicolo della Penitenza 24 - Roma  tel. 06.97848965 

Da Dior a Givenchy, l'età dell'eleganza ospite a Como coi tessuti Costa

In mostra abiti dei più grandi stilisti confenzionati negli anni '50 con le stoffe Costa. Per la prima volta verrà esposto al pubblico anche un vestito della Sartoria Tirelli di Roma.

L'età dell'eleganza. Le Filande e Tessiture Costa nella Como degli anni Cinquanta' è la mostra che sarà inaugurata il 5 maggio alla Villa del Grumello, a Como, dal Museo Studio del Tessuto - Must della Fondazione Antonio Ratti, in collaborazione con l'Archivio di Stato di Como. Abiti di Dior, Givenchy, Fath, Sully, Dumas, Balenciaga e Galitzine, confezionati con i tessuti Costa, in mostra nelle sale di una delle residenze più affascinanti del Lario fino al 27 giugno.Per la prima volta verrà esposto al pubblico anche un abito della Sartoria Tirelli di Roma, ritrovato dalle curatrici, Margherita Rosina e Francina Chiara, durante le loro ricerche.Fa parte della collezione Primavera/Estate 1953 di Hubert de Givenchy di cui si conoscono solo altri due modelli, uno conservato al Costume Institute del Metropolitan Museum di New York e uno al Musée Galliera di Parigi.Il percorso espositivo si svilupperà attraverso i temi delle più importanti ed estrose collezioni create dai Costa nel corso del decennio. Un viaggio tra pellicce, ortaggi, gioielli, boiseries, trionfi culinari e soggetti floreali accompagnerà il visitatore nel mondo sfavillante e fantasioso dei disegnatori tessili dell'Italia della ripresa economica.Grazie alla ricchezza degli archivi cartacei, custoditi quasi integralmente presso l'Archivio di Stato di Como, e a prestiti nazionali ed internazionali, tra cui quelli della Fundaciòn Cristòbal Balenciaga di Getaria, è stato possibile ricostruire il percorso storico-creativo di una delle aziende che hanno contribuito alla diffusione dell'eccellenza comasca in Europa.L'esposizione ripercorre l'intero ciclo produttivo: l'idea iniziale, la composizione del disegno, le prove di stampa su carta, per arrivare al tessuto finito.In evidenza ci saranno anche le collaborazioni con Andrée Brossin de Méré (designer di origine svizzera) e Manlio Rho (pittore comasco) che consentirono all'azienda di vedere i propri tessuti stampati citati dalle riviste dell'epoca come i più straordinari apparsi sulle passerelle parigine.Insieme alle retrospettive degli anni scorsi su Carla Badiali e Guido Ravasi, questa esposizione è parte della ricerca sulla produzione serica comasca d'eccellenza del Novecento, condotta dal Must a partire dal 2000.

FONTE: adnkronos.it

venerdì 23 aprile 2010

In mostra tutti gli eroi di Vercelli



Da venerdì al "Museo Leone" cimeli, carte e monumenti sul bicentenario di Cavour e gli uomini che hanno reso grande il territorio vercellese

“Gli eroi ritrovati. Vercelli e i vercellesi che fecero l’Italia (1821-1918)”. E' il titolo di una mostra dedicata a Vercelli, al suo territorio e ai suoi eroi, che apre i battenti venerdì 23 aprile - con inaugurazione ad inviti giovedì 22 - al Museo Leone di via Verdi 30 a Vercelli. L'esposizione vuole innanzitutto celebrare il bicentenario della nascita di Camillo Cavour (1810-1861), il grande statista e fautore dell’Unità d’Italia che, dalla sua tenuta di Leri, diede modernità all’agricoltura risicola del Vercellese e promosse il sistema irriguo di cui è dorsale il Canale a lui intitolato. Ma non è tutto. L'amico di Cavour Giovanni Faldella diceva: «Vorrei far riflettere nello specchio delle risaie di Leri le immagini dei principali personaggi e delle principali scene che sfilarono nella storia del Risorgimento italiano». Quei personaggi sfileranno invece nelle sale del Museo Leone fino al 31 ottobre. Insieme a loro gli eroi vercellesi come Randaccio, Prestinari, De Rege, Bava, i fratelli Garrone e Laviny. La mostra, il cui allestimento è opera del presidente del Museo Leone Amedeo Corio e di Maria Bice Sartoris, per la cura scientifica di Luca Brusotto, Anna Maria Rosso e del vice presidente della Società storica Giovanni Ferraris, copre l'arco di tempo che va dai moti rivoluzionari del 1821 fino al 1918. Racconta attraverso cimeli, documenti e monumenti, le storie di personaggi il cui nome è oggi purtroppo associato solo a vie, piazze, strade, spesso semplici indirizzi della nostra vita distratta. Con questa esposizione si cercherà di ricordare che prima di tutto furono uomini e che fecero grandi cose. L'evento si protrarrà fino al 31 ottobre. Per le scuole in autunno prenderanno il via percorsi didattici appositamente preparati da Cinzia Joris e dall’équipe didattica del museo. Sono comunque possibili visite didattiche già entro la fine di questo anno scolastico. Per il pubblico invece, tutte le domeniche pomeriggio alle ore 15, 16, 17, dal 25 aprile al 31 maggio, visite guidate gratuite condotte da Luca Brusotto. Come di consueto, in occasione della “Settimana della Cultura”, giunta quest’anno alla dodicesima edizione, il Museo Leone di Vercelli apre intanto gratuitamente le porte al pubblico. Da sabato 17 a giovedì 22 aprile sarà possibile visitare liberamente le collezioni del notaio Camillo Leone e compiere un affascinante viaggio per la città di Vercelli ed il suo territorio raccontati dalle ricchissime ed eclettiche raccolte custodite nelle storiche sedi di Casa Alciati e Palazzo Langosco. Ed ecco gli orari per visitare la mostra dedicata agli eroi vercellesi: dal 23 aprile al 30 maggio e dal 14 settembre al 31 ottobre, dal martedì al sabato dalle ore 15 alle 18, domenica dalle ore 10 alle 12 e dalle 15 alle 18. Dal 1 giugno al 12 settembre: martedì e giovedì dalle ore 15 alle 17,30 sabato dalle ore 15 alle 18, domenica dalle ore 10 alle 12 e dalle 15 alle 18.
Il biglietto di ingresso (comprende la visita al museo) costa 5 euro. Riduzioni per chi presenta il biglietto della Mostra “Peggy e Solomon Guggenheim: le avanguardie dell’astrazione”. Per informazioni: tel. 0161253204, web: www.museoleonevc.it, e-mail: museoleone@tiscali.it
FONTE: lastampa.it

giovedì 22 aprile 2010

Il rebus dell'identità messicana



Al Bozar e in città due secoli di percorsi creativi

Come esiste il concetto antropologico di «latinità», o di «fiorentinità», per la pittura rinascimentale e la poesia ermetica esiste anche un’analoga definizione di «mexicanidad» che soprattutto le fiorenti avanguardie sudamericane novecentesche rivendicarono. Ma è possibile, grazie all’arte, in un’unica mostra, «mostrare per imago» questa «messicanità», a partire dalle prime, sontuose vestigia pre-colombiane per giungere poi alle ultime manifestazioni d’arte contemporanea? Ci si prova l’intera città di Bruxelles e l’istituzione del Bozar, che attraverso balletti e film, perfomances teatrali e canzoni folk, tenta di restituire una radiografia il più possibile esaustiva e rapsodica d'una civiltà multisecolare, quale quella messicana. Intessuta e riletta soprattutto attraverso un percorso visivo di Imagines del Mexicano, come indica la sezione principale di questa gran kermesse, a molti pannelli. Assai importante anche la sezione architettonica, sia pur soltanto fotografica (né disegni né maquettes) che dimostra comunque l’alta qualità del Modernismo indigeno. Meno spettacolare la sezione dedicata alla fotografia contemporanea, che non brilla di originalità, leggermente onirica, molto documentaria, anche se ha alle spalle il magistero di fotografi quali la nostra Tina Modotti, in complice competizione con due geniali dell’immagine come Manuel e Lola Alvarez Bravo.

Un clima, rivoluzionario e passionale, incendiato, da murales, caratterizza il Messico, sin dagli anni della sua Indipendenza, nel pieno dell’Ottocento romantico, a partire dal Grito di Dolores, ancor pre-risorgimentale, che prorompe da Miguel Hidalgo, nel 1810, per invocare l’indipendenza dagli spagnoli invasori. La mostra quindi celebra insieme due anniversari: il bicentenario dell’Indipendenza ed il centenario della rivoluzione, che prende fuoco agli anni Dieci del ‘900, contro il dittatore Porfirio Diaz. Ed il Belgio viene pesantemente investito dall’anniversario, anche perché belga di origine era l’imperatrice Charlotte, che va sposa al fratello di Francesco Giuseppe, Massimiliano d'Asburgo, fucilato dai ribelli, nel 1867, come ci racconta un celebre quadro «goyesco» di Manet. Tre soli anni d’impero «messicanizzato»: lo dimostrano i ritratti con quei basettoni esagerati, che paion le vesti irsute del Buon Selvaggio russoviano, e le icone folkloriche, in cui volentieri questo Asburgo si cala, per essere accettato. 

Travestendosi da fiero Chinaco, ricco proprietario terriero con impeto d’hidalgo, o meglio ancora da semplice contadino Charro, pasciuto e soddisfatto. Anche perché, se sempre la lotta di classe e la battaglia coloniale, presiede a quest’immaginario, l’iconografia quasi stereotipata del meticcio o del popolano strafottente e pieno di sé, invade tutta questa ritrattistica. Come l’aspetto insieme impegnato ma anche visionario, quasi onirico e naif di artisti come Saturnino Hernan, Roberto Montenero (strano sia assente il magnifico Dottor Alt) e poi soprattutto Hermenegildo Bustos, che anni fa si meritò un debito volume «borgesiano» di Ricci. E che poi sbocca sino a Frida Kalho, omaggiata qui da una mostra a sé, non troppo memorabile.

IMAGINES DEL MEXICANO 
BRUXELLES. BOZAR
FINO AL 10 MAGGIO 

martedì 20 aprile 2010

New York, la fotografia batte la crisi

"Irving Penn sta alla fotografia come Giacometti alla scultura e Picasso alla pittura." Con queste parole, riportate dal "Daily Telegraph", Tim Jeffries della Hamiltons Gallery di Londra definisce l'importanza del maestro americano, scomparso nell'ottobre 2009 e ora in mostra alla National Portrait Gallery di Londra (fino al 6 giugno). Ed è proprio Irving Penn il protagonista delle aste di fotografia che si sono svolte a New York e hanno mostrato una ripresa del mercato fotografico, segnato dalla crisi nel 2008-2009, soprattutto per i classici della fotografia (anche perché le blue chip contemporanee non vengono incluse nelle aste di fotografia bensì in quelle d'arte contemporanea). In particolare Christie's ha messo all'asta mercoledì 14 aprile la collezione di Patricia McCabe, assistente di Irving Penn per 30 anni, scomparsa nel 2004, composta da 70 stampe che il fotografo le aveva regalato nel corso degli anni corredandole con dediche affettuose. L'asta ha realizzato uno stupefacente 100% di vendita, sia per valore che per lotto, per un totale di 3.851.250 $ (stima 1,3-2milioni $). I risultati migliori sono stati ottenuti da due immagini di danzatrici di "Guedra" battute per 314.500 e 254.500 $ (entrambe stimate 40-60mila $), seguite da "Broken Egg" che, partita da una stima di 7-9mila $, è giunta a 206.500 $. Per la stessa cifra è passata di mano una stampa a base d'argento di bambini di Cuzco, per cui era atteso il primo posto (stima 100-150mila $). La stessa fotografia stampata al platino (tecnica che Penn ha utilizzato dagli anni '60 e che rende le stampe più durature e di maggior valore) è stata battuta nell'aprile 2008 per 529.000 $ stabilendo il record per l'artista. Il mercato di Penn si è mantenuto stabile durante la crisi grazie anche ad un'attenta politica di controllo delle stampe che l'artista ha iniziato negli anni '60 e che non permette di ristampare le fotografie una volta finita l'edizione. Irving Penn ha segnato anche il miglior risultato della vendita di giovedì 15 sempre da Christie's con fotografie di varia provenienza. La sua "Woman in Maroccan Palace" è passata di mano per 446.500 $. La vendita di 158 lotti ha totalizzato 4.055.125 $, vale a dire il 75% per lotti e l'87% per valore.  Lo stesso giorno nell'asta della collezione Baio al Rockefeller Plaza - che ha totalizzato 1.425.500 $ - la raccolta monotematica di immagini di bambini e adolescenti, ha registrato il record mondiale per Eugene Atget con la vendita di "Joueur d'Orgue" del 1898-99 circa, battuta per 686.500 $. L'opera è una delle poche stampe vintage di Atget ed è appartenuta al dadaista Tristan Tzara. La vendita ha realizzato un totale di 1.425.500 $ (120 lotti offerti, 71% venduti e 89% per valore). Tra i contemporanei, buoni risultati per Philip-Lorca di Corcia che ha tre foto nella top ten (52.500, 27.500 e 23.750 $).  Sotheby's ha ottenuto risultati altrettanto buoni all'asta del 13 aprile: 240 lotti hanno scambiato un totale di 5.081.265 $, vale a dire il 90,3% per valore e l'81,7% per lotto. Il risultato migliore è stato uno straordinario 1.082.500 $ per "Nautilus" di Edward Weston, capolavoro del modernismo. Il secondo risultato migliore è stato realizzato da un fotogramma di Lázló Moholy-Nagy dei primi anni '20, battuto per 290.500 $ e appartenuto a Christian Zervos, editore della rivista d'arte "Cahiers d'Art" e più tardi autore del catalogo ragionato dell'opera di Picasso.  La serie di aste di fotografia è stata conclusa a New York da Phillips de Pury venerdì 16 con la vendita di 349 lotti per un totale di 3.470.675 $. Il miglior risultato è stato ottenuto da Edward Steichen con "Wheelbarrow with Flower Pots" del 1920, passato di mano per 194.500 $ (stima 150-200mila). Risultati a sei cifre anche per i contemporanei David LaChapelle con "Last Supper" (2003, stima 60-80mila $), passato di mano per 134.500 $, e Robert Mapplethorpe con "Ken Moody and Robert Sherman" (1984, stima 60-80mila) battuto per 110.500 $. 
Le vendite hanno registrato anche alcuni invenduti con lotti per cui si attendevano ben altri risultati: Christie's non è riuscita a trovare compratori per "Child with a toy hand grenade in Central Park" di Diane Arbus, stimata 150-250mila $, né per "Portrait, Rebecca" di Paul Strand, stimata 250-350mila e rappresentata in copertina; tra gli invenduti di Phillips de Pury c'è una delle uniche due fotografie di Cindy Sherman offerte alle aste, "Untitled #187" del 1989, la cui stima ammontava a 50-70mila $.  Oltre ai già anticipati appuntamenti con la fotografia del 19 maggio da Bloomsbury a Roma e del 20 maggio da Phillips de Pury a Londra, c'è grande attesa per la vendita della collezione di Polaroid il 21-22 giugno da Sotheby's a New York.

FONTE: Silvia Barrilà  ( www.arteconomy24.ilsole24ore.com )

lunedì 19 aprile 2010

Jodice, il fotografo dell'inquietudine


In una grande retrospettiva al Palaexpo di Roma 180 immagini in bianco e nero di uno dei protagonisti della ricerca contemporanea dagli Anni 60 a oggi

Non sono mai rassicuranti le immagini di Mimmo Jodice, anzi lui è forse il più grande fotografo dell’inquietudine. Un’inquietudine che cerca a volte invano di placarsi nella classicità e in un passato di vestigia e palazzi e statue che lui riesce per incanto a far rivivere ossia a rendere «cosa viva» e sofferente. Così il cuore della grande antologica che gli dedica il Palazzo delle Esposizioni di Roma, a cura di Ida Gianelli e Daniela Lancioni, è Anamnesi, del 1990, montaggio di dieci volti, da busti, affreschi, mosaici, statue dove l’umanità è come sfregiata, profili diventati spugnosi come se affetti da mucca pazza, nasi frantumati, guance tagliate, occhi sbrecciati o perforati. Dove un tempo era la bellezza, sembrano dirci queste immagini, oggi c’è l’orrore, un orrore però che non riesce del tutto a cancellare quella lontana bellezza perduta, l’inseguimento delle cui tracce sembra motivare buona parte dell’attività del fotografo napoletano. Un’attività che inizia negli Anni 60, quando Jodice respira l’ansia di una irripetibile stagione di ricerca, che in fotografia significa da un lato l’immergersi nel reportage sociale e dall’altro interrogarsi come Ugo Mulas sugli statuti della disciplina.

Siamo al secondo piano del Palaexpo che ospita in questi giorni l’esposizione (a cura di Achille Bonito Oliva) sulla Natura in De Chirico, e val la pena di visitare a «ritroso» la mostra di Jodice, non solo perché «Natura» è anche il titolo dell’ultima stanza con la produzione più recente del fotografo (commentata dallo stesso Abo in catalogo). Qui l’inquietudine la troviamo in rami di alberi che sembrano protendersi nel vano tentativo di afferrare qualcosa o qualcuno o che quasi soffocano la possibilità di esistere di una finestra. Poi c’è la stanza del «Mare», dove alcune immagini ti danno l’idea metafisica, immobile e soffocante, di una bonaccia conradiana, e altre piene di cieli minacciosi ti parlano di tempeste imminenti. L’uomo non c’è e non sai se non ci sia mai stato o se siamo in un universo post-atomico. Forse meno convincente il capitolo «Eden» (quanto meno per la giustificazione ideologica che ne dà lo stesso Jodice: «una metafora della violenza quotidiana, la violenza persuasiva e pervasiva con la quale bisogni indotti ed effimeri ci seducono»), dove si rivisitano cibi e oggetti, dalle zampe di pollo alle testine di vitello, dai guanti alle forbici. Poi ci si immerge nel cuore e nelle rovine del «Mediterraneo». Un viaggio, in cui, come spiegava Julide Aker in un numero di Camera Work del 1997, «i frammenti del retaggio artistico del mondo classico sono bagnati dalla luce, avvolti dall’effetto flou e collocati in un luogo che non è né qui nel presente né là nel passato».

Il nomadismo di Jodice, non solo mentale ma anche spaziale, l’ha portato a esplorare anche luoghi lontani, dall’America al Giappone, e la stanza successiva ci regala immagini hopperiane di Boston e motocicli come cavallette in un parcheggio di San Paolo.

Poi incrociamo le «Rivisitazioni», che sono ritorni a casa, ossia riconsiderazioni di quei luoghi napoletani (ma non solo) che avevano visto negli Anni 60 le prime indagini antropologiche di Jodice. Anche qui però è come se una bomba «intelligente» avesse fatto sparire gli uomini ma non le loro tracce: il Reale Albergo dei Poveri è ora una scalinata di sedie e scarpe vecchie, Suor Orsola un muro sbrecciato con uno di quei bastoni che solo al Sud si usano per tener su i fili dove stendere i panni. E nelle «Vedute di Napoli» fantasmi appaiono le auto o gli oggetti avvolti in lenzuola. Non fantasmi ma persone reali, bambini indigenti nei bassi di Ercolano o del centro storico, sono protagonisti delle serie dei primi Anni 70. Le ricerche e le sperimentazioni, non solo in fase di stampa, sono invece al centro delle prime sale, dove ad esempio debitrice a Bill Brandt è la serie di nudi e di volti femminili che si perdono nell’ombra. Ci sono giochi di montaggio come il paesaggio di Morano Calabro trattato in vari modi o i giochi alla Fontana, con il taglierino che incide davvero una foto o quelli concettuali alla Boetti, come la fotografia di una lettera inviata a se stesso.

Si esce con l’idea di aver percorso, attraverso 180 immagini in bianco e nero, un pezzo di storia della nostra fotografia: la mostra ci aiuta a capire Jodice e perché sia oggi uno dei pochi fotografi italiani apprezzati a livello internazionale. Unico limite: la mostra parla forse più alla testa che al cuore, cosa che invece riusciva a fare quella «ambientata» alcuni anni fa nel salone della Meridiana al Museo Archeologico di Napoli.

FONTE: lastampa.it

domenica 18 aprile 2010

La Fondazione Pirelli apre l'archivio storico al pubblico

Custodisce documenti, scritti, filmati, oggetti, opere d'arte e immagini fotografiche che ripercorrono i 138 anni di storia industriale e culturale dell'azienda, dalla sua costituzione del 1872 a oggi

La Fondazione Pirelli apre il proprio archivio storico che comprende illustrazioni a opera di Marcello Dudovich, l'intera collezione della Rivista Pirelli, pubblicata fra il 1948 e il 1972, con le firme, tra le tante, di Eugenio Montale, Alberto Moravia, Umberto Saba, Carlo Emilio Gadda, Umberto Eco. La Fondazione Pirelli, nata lo scorso anno, promuove e diffonde la conoscenza del patrimonio culturale, storico e documentale del gruppo. Tra gli obiettivi della Fondazione c'è anche la promozione e la valorizzazione di iniziative culturali, che presentino caratteristiche di affinità e coerenza con la cultura d'impresa Pirelli. L'archivio storico custodisce documenti, scritti, filmati, oggetti, opere d'arte e immagini fotografiche che ripercorrono i 138 anni di storia industriale e culturale dell'azienda, dalla sua costituzione del 1872 a oggi. Tra i materiali, le illustrazioni a opera di Marcello Dudovich di inizio Novecento; l'intera collezione della Rivista Pirelli, pubblicata fra il 1948 e il 1972, con le firme, tra le tante, di Eugenio Montale, Alberto Moravia, Umberto Saba, Carlo Emilio Gadda, Umberto Eco. Tutto il materiale conservato nell'Archivio, dal 1972 tutelato per il suo interesse storico dalla Soprintendenza Archivistica, è da oggi nuovamente a disposizione di studiosi, ricercatori e, più in generale, del pubblico interessato alla storia e alla cultura d'impresa. La Fondazione ha anche recentemente acquisito le carte di Alberto Pirelli, figlio del fondatore della società Giovanni Battista Pirelli, e del figlio Leopoldo Pirelli. La presentazione dell'archivio della Fondazione è avvenuta ieri alla presenza di Marco Tronchetti Provera, presidente Pirelli, Alberto Pirelli, vicepresidente Pirelli, Cecilia Pirelli, presidente onorario della Fondazione e Antonio Calabrò, direttore della Fondazione. In occasione dell'inaugurazione, sono stati presentati alcuni dei pezzi di maggior rilievo tra opere d'arte, oggetti di design, documenti, immagini e campagne pubblicitarie dell'Archivio. In particolare, per la prima volta è esposto al pubblico il dipinto dal titolo 'La ricerca scientifica', realizzato da Renato Guttuso su commissione di Pirelli per l'Esposizione Internazionale di Torino del 1961 nell'ambito delle celebrazioni del centenario dell'Unità d'Italia. Il dipinto, di grandi dimensioni (tre metri per cinque) e recentemente oggetto di restauro, ha fatto da riferimento per l'analogo mosaico, raffigurante uomini e donne intenti a studiare il mondo, realizzato dai Maestri Mosaicisti dell'Accademia delle Belle Arti di Ravenna. Oggi dipinto e mosaico possono essere ammirati sulle pareti della sede della Fondazione Pirelli. Ricca anche la collezione di storiche campagne pubblicitarie in visione all'interno della mostra. Tra le opere esposte si possono ammirare, tra gli altri, i bozzetti in perfetto stile futurista elaborati da Ballie nel 1913 per la rivista del Touring Club Italiano, mentre le sinuosità disegnate da Giuseppe Riccobaldi - con l'equilibrista sul pneumatico - riportano al colorato Liberty del 1917. Particolari anche i bozzetti pubblicitari anni Trenta di Salemme, Renzo Bassi, Nino Nanni e Bertoglio per il pneumatico Pirelli Stella Bianca del periodo ''tardofuturista'' dell'''ordine gigante'', con il pneumatico che emerge esagerato in primo piano, quasi incombendo sul paesaggio. Giorgio Tabet (1930) e Jeanne Grignani (1954) hanno firmato i bozzetti degli impermeabili Pirelli, articoli della collezione di abbigliamento che vedeva gli stivali in gomma tra i prodotti più rinomati del tempo, oggi rivisitati e riproposti con il brand PZero. La Fondazione e l'Archivio storico, oltre due chilometri e mezzo di scaffalature contenuti in armadi compattabili, sono ospitati nel Fabbricato 134, una palazzina di due piani posta all'ingresso del comparto Pirelli nel quartiere Bicocca di Milano. L'edificio, recentemente restaurato e ammodernato, mantiene tutto il fascino dell'architettura industriale che connotava uno dei più celebri stabilimenti milanesi, cuore di Pirelli fin dal 1908, nato attorno all'antica residenza della Bicocca degli Arcimboldi che fa ancora mostra di sé a pochi metri dalla Fondazione. A disposizione dei visitatori della mostra e dell'intero Archivio Storico Pirelli, che sarà aperto al pubblico e ricercatori da lunedì a venerdì su appuntamento dalle ore 9.00 alle ore 17.30 con accesso da Viale Sarca 222, anche una postazione interattiva Surface con schermo multi touch che consentirà di accedere a documenti, fotografie e disegni conservati nella Fondazione con semplici percorsi informatici e tag.

FONTE: adnkronos.it

sabato 17 aprile 2010

Le crisi passano, l’arte resta.


La tempesta che travolge le Borse non risparmia le aste e fiere, ma la delusione degli investimenti non penalizza quelli in arte, anzi li valorizza, attribuendo loro una maggiore capacità di resistenza nei casi di qualità accertata


Londra e New York. Dopo il clamoroso risultato delle due sessioni (15 e 16 settembre) della vendita Hirst da Sotheby’s (100% di venduto, 140,5 milioni di euro di incasso totale, cfr. lo scorso numero, p. 81), in prima linea a fronteggiare il sisma sono state a settembre l’Asian Week a New York, a ottobre l’arte contemporanea, le Italian sales, il design e l’arte islamica a Londra. Ai bassi tassi di venduto newyorkesi di settembre hanno fatto eco a ottobre cali consistenti negli andamenti del design, dell’arte islamica e del contemporaneo, mentre l’arte moderna italiana ha sorpreso gli osservatori, resistendo molto bene, con percentuali di venduto rispettivamente dell’88,5% da Sotheby’s e del 69% da Christie’s; le due case d’asta hanno incassato comunque quest’anno in totale per le Italian sales 31 milioni di euro, contro gli oltre 43 dell’anno scorso (per tutte le aste di ottobre, cfr. articoli nella sezione «Economia Aste» in questo numero). L’attuale congiuntura economica è la sesta crisi degli ultimi cinquant’anni: ce lo ricorda, nello stesso settore, un testimone, Casimiro Porro, il maggior banditore d’asta italiano, che a pagina 91 ripercorre caratteristiche, durata, protagonisti e vittime delle cinque crisi precedenti. Sul fronte delle fiere,  i grandi appuntamenti di ottobre, Frieze a Londra e la Fiac a Parigi, di cui il nostro Giornale dà conto in questo numero a p. 97 e 99, sono i compratori più esperti, per lo più i collezionisti, a far la parte del leone che cercano di approfittare delle incertezze e delle paure per scegliere e ottenere opere di qualità a prezzi vantaggiosi. Ai galleristi  tocca, come sempre in tempi di vacche magre, abbassare i prezzi: ben pochi hanno la forza di sostenere le quotazioni alte non vendendo nulla. È quello che  toccherà fare anche alle case d’asta, per una stagione, la prossima, che si annuncia in clima di saldo; i collezionisti forniti di liquidità potranno sfruttare il momento propizio. Per ora, Sotheby’s, che delle due maggiori società mondiali è quella maggiormente tenuta alla trasparenza, perché quotata in Borsa, ha chiesto un prestito di 250 milioni di dollari alla Bank of America, e sta stringendo i cordoni della borsa soprattutto per quanto riguarda i contratti di garanzia, cioè i minimi garantiti al venditore a prescindere da quel che l’opera consegnata per la vendita potrà realizzare in sede d’asta; e anche le concorrenti Christie’s e Phillips, in un contesto così problematico, ben presto si adegueranno.
2008-11-26

giovedì 15 aprile 2010

Cremonini l'antimoderno amato da Bacon

Acido, acre, è il primo aggettivo che ti viene alla mente. Non lui, Leonardo Cremonini, bolognese, classe 1925, che la morte si è portato via dopo una lenta, inesorabile malattia. No, lui sapeva anche essere simpatico, conversatore brillante (Sgarbi ne aveva fatto un paladino anti-moderno delle sue trasmissioni), anche se era un ironista talvolta implacabile. Ma acida, spettrale era la sua pittura: ostile, maldicente, tanto esatta quanto sbilanciata. Volutamente sgradevole. Abitata da folletti, che forse venivano da Bosch, da Füssli, da Balthus o Leonora Carrington. Ha scritto Régis Debray: «Visitatore che passi di qui, non fuggire per il malessere. I divertimenti passano. Gli avvertimenti restano. Guardatevene. Cremonini resterà». Spiagge scottate da un sole paonazzo di neon, cabine sventrate, che paion palafitte del cielo, gabbie primordiali dell’ansia. E ombre che s’infilzano come pugnali tra marmocchi urlanti, perfidi ET della pietra, con il volto tarlato di sabbia, sfigurato dal morbillo della calura. E specchi deformi, che riflettono strani delitti mentali, che non riusciamo ad acchiappare, mentre inesorabili rubinetti sputano sangue viola. Incubi, malessere, oppressione. Ma proprio per questo esageratamente squadrati, ossessivamente spogli. Non stupisce che - artista inesistente per la critica iscritta al Partito del Moderno - Cremonini fosse amato non solo da scrittori come Moravia, Soavi e Calvino (come lui fuggito presto a Parigi, per sdegno di un’Italia che tollerava solo da Panarea in giù), ma anche da strutturalisti come Eco, Derrida, Althusser. Ed è ovvio che avendo attirato l’attenzione di Spender, Butor ecc. poteva anche fregarsene di una critica nostrana che lo ignorava. Lui si vendicava con l’essere l’unico italiano apprezzato da Bacon. Forse più vicino a narratori come McEwan o Cortázar, che non a tanti imbrattatele monocromi o coatti dell’installazione debole.

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

mercoledì 14 aprile 2010

I Preraffaelliti, Medioevo prossimo


A Ravenna una grande mostra ripercorre l’avventura del movimento che a metà ’800 sognava l’Italia di Dante

Per fortuna non siamo più in anni di trionfalismo avanguardistico (visto i guasti che nonostante il loro indiscutibile «genio» quei movimenti hanno provocato nei seguaci stenterelli) e soprattutto di dittatura del teleologismo progressivo, alla Vasari. Per cui «il faut être absolument moderne», per dirla con Rimbaud, e superare cancellandolo tutto quello che ci ha preceduto. La ridicola devozione dell’essere Nuovi A Tutti i Costi. Come ricorda il curatore di questa meditata mostra, Claudio Spadoni, è curioso per esempio ricordare come Renato Barilli, che è stato il primo in Italia, dopo Praz ed insieme a Maria Teresa Benedetti, ad occuparsi di Preraffaelliti, sia stato anche il primo a lamentare il loro «passatismo», stigmatizzandoli perché non abbastanza «avanguardistici» e «sperimentali», rispetto «alle due principali rivoluzioni che l’Ottocento ci avrebbe dato, nella sua seconda metà». Ovvero i vincenti Impressionisti e i «sintetici» pittori simbolisti. Bastonando, come fecero pure molti contemporanei bacchettoni della Confraternita: «quel loro meticoloso “finito” e l’asciuttezza e il rigore di linee». Che può risultare in effetti un po’ acerbo e gracile (alla maniera del Manierismo) ma che invece oggi, dopo tanta digerita Art Nouveau e cultura dell’eclettismo, al di là dei pregiudizi modernisti, molto ci attrae, senza corsette agonistiche a chi arriva Primo. 

Ma la cosa singolare è che, quando gli adepti della Confraternita cosiddetta P.R.B., iniziano a perseguire il loro intenso credo artistico primitivista, son convinti d’esser ultra-moderni e proprio per questo vengono perseguitati dalla critica ufficial-accademica. E difesi invece da quel santone ormai indiscusso, ch’era il teorico e non soltanto, Ruskin, presente anche in questa bella mostra, con i suoi dettagliatissimi acquerelli di monumenti antichi, meglio se italiani e meglio ancora se gotici (come è noto Ruskin odiava Rinascemento e Barocco, aprendosi alle luci tormentate del pittoresco Romantico). Ruskin che ama fin da bambino il grande rivoluzionario Turner, ma ironizza sulla velocità sommaria di Whistler, che avrebbe l’ardire «di gettare barattoli intieri di tinte grigie in faccia ai visitatori» e si merita una denunzia, da parte del pittore, che in conseguenza vede azzerarsi il proprio successo. Ruskin era all’epoca un guru.

Ma Whister vince simbolicamente la causa (una ghinea, nulla) al grido di: «Sì, ho realizzato il mio Notturno sul Tamigi, in meno di un giorno, e chiesto molte sterline, ma perché per ottenerlo così c’è voluta tutta la meditazione pittorica d'una vita». Curiosamente Ruskin ama il liquido Turner, ma detesta chi sceglie la via sommaria della scorciatoia compendiaria tipo Whistler (che già era degli antichi pittori pompeiani). Oggi è invece proprio quel dettaglismo, quasi ossessivo ed un po' fiammingo d’ispirazione, e mai pompier, che ci seduce, anche perché è pastellato di materia e liricamente vivo, gonfio di letteratura e di morbosi sensi. Come si rese conto subito, precocemente, l’esteta D'Annunzio, e come bene illuminò il Divino Anglista Praz, alla ricerca delle sue dislocate Belle Dames sans merci: senza remissione, per i poveri maschi calpestati. «In cui elementi desunti dallo Stil Nuovo vengono resi più complessi e raffinati e s’armonizzano in una visione di simbolismo sessuale e melanconico. Beate Donzelle e Donni Fatali, Astarti e Sibille, immagini bifronte della stessa sessualità, morbosa ed insaziata». 

In realtà ad essere calpestate e travolte, in questo rapinoso vento morboso, che si nutre anche molto di paradisi artificiali e di laudani visionari, son spesso le povere mogli-sorelle-modelle, che passano da uno studio all’altro, oltre che dalle braccia inesperte e smaniose dei loro turbati compagni di vita e talvolta vengon tenute troppo a mollo nelle bagnarole d’acqua diaccie, per simulare domestici naufragi poetici di Ofelie imbibite, finendo poi dritte nell’al di là, afflitte da lunghe sedute (e non pittoriche) di tisi letali. Jane Morris, per esempio, che è la moglie insoddisfatta del primo teorico del design, ancora artigianale, William, e si lascia amare da Dante Gabriele Rossetti, che la ripaga trasformandola in volto riconoscibile e musa ossessiva di tutta la sua pittura.

Facendole incarnare i ruoli così diversi ma uniformati da quella riconoscibile fisionomia, di Beatrice, Gemma Donati, Lucrezia Borgia (corteggiata incestuosamente dal padre pontefice Alessandro VI e dal fratello ribaldo Cesare, che le carezza le tipiche cascate di capigliatura arroventata, rubensiana). Ed è presente pure, Jane, mentre Giorgione dipinge le sue etere antiche, e Giotto medita le sue nuovo iconografie, ritrattando immaginariamente Dante (secondo l’ipotesi di un ritrovamento al Bargello, nel 1840). Perché poi i personaggi, e le fonti d’ispirazione, sono in fondo questi e ricorrenti, Dante e Francesca da Rimini e la Vita Nova, Shakespeare e i suoi estivi folletti, la Bibbia e sporadicamente Boccaccio («bocca baciata non perde ventura/ anzi rinnuova come fa la luna» - un bel po’ in anticipo sul Falstaff di Verdi). 

Peccato che non sia presente quel classico incredibile del preraffaellismo fiorito, che è la minuta, quasi miniaturistica, «narrazione» del giovane Gesù apprendista, nella moderna bottega del padre falegname, firmato da Everest Millais, che è curiosamente assente dalla mostra ed ingiustamente, visto che era considerato anche una sorta di teorico del gruppo, in dialogo con Ruskin (ma la decisione tassativa ed indecifrabile viene dai co-curatori inglesi e dunque conviene non fiatare, visto le belle opere che ci hanno inviato). Ci sono tutti gli altri, infatti, e con opere giuste e non soffocanti, da Hunt a Lord Leighton, da i vedutisti Boyce e Brett, da Burne-Jones a Crane, compreso il poeta-pittore non-sensical Edward Lear (anche in rapporto al vedutista della campagna romana Nino Costa). Ognuno che prende la sua via, a dimostrare ch’esser preraffaelliti non vuol dire soltanto idolatrare l’antico e la semplicità purista di Beato Angelico e Benozzo Gozzoli e del Camposanto gotico di Pisa, guastata dai «brillanti veleni insipidi» del demonizzato Raffaello. Ma esser «onesti» nel proprio assunto. E vicini alla verità dell’immaginario.

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

lunedì 12 aprile 2010

GIUSEPPE COMINETTI TRA DIVISIONISMO E FUTURISMO



Sono passati cinquant’anni dal recupero per merito di Giovanni Carandente, alla Quadriennale di Roma del 1959, delle singolari inquiete scorribande d’avanguardia primo '900 di Giuseppe Cominetti (1882-1930): simbolismo, divisionismo, qualche poco persuasa tangenza con la nascita del futurismo, bohéme internazionale a Montmartre, espressionismo. Dopo di allora si susseguirono, sotto la primaria cura di Gianfranco Bruno, le antologiche a Genova e a Vercelli nel 1983 e quella più ricca a Novi Ligure nel 2006. Già nel 1983,q uando vennero esposti anche 26 disegni di guerra e i mobili dell’atelier di Montmartre ora riproposti, emerse il rapporto privilegiato degli eredi con Vercelli, nel cui Liceo Lagrange alla fine dell'800 avevano studiato Giuseppe e l'inseparabile fratello Gian Maria, futuro letterato e teatrante a Genova e a Parigi. 


Esempio tipico di questo rapporto fu allora il deposito da parte del Comune al Museo Borgogna della grande tela di retorica modernista-populista del 1919 L’Electricité. Ad essa si sono aggiunti ora il deposito a lungo termine dell’opera più celebre, I conquistatori del sole del 1907, inviata da Genova al Salon d'Automne del 1909, il cui successo fu all’origine del trasferimento a Parigi, e la donazione di un pendent de L'Electricité, Le Forgeron. È questa l’origine della mostra, a cura di Massimo Melotti, ridotta, 16 dipinti, 12 disegni, ma di ottimo livello scientifico, a partire da una definitiva chiarificazione documentaria nella biografia di Beatrice Zanelli. 

La brillante idea di base è quella di ricostruire un atelier ideale, fra Genova, Parigi e nel primo dopoguerra anche Roma, intorno agli strani mobili fra liberty, gusto secessionista e déco con ornati orientaleggianti in papier maché, le vecchie e nuove entrate nel Museo e una scelta molto oculata di opere significative.S i passa dall'Autoritratto del 1904 e dal Ritratto del fratello del 1906, ancora oscillanti fra scapigliatura lombarda, echi di Carrière e una cupa tessitura grigiobruna protodivisionista vicina agli esordii di Carrà e di Balla, al Matrimonio del 1908, straordinario quadro espressionista «europeo» fra Munch ed Ensor in anticipo sul Lutto di Boccioni del 1910. 

La minuziosa ma compatta tessitura «divisa» rossodorata e bruna dei Conquistatori, fra la Genova di Nomellini e l’Alessandria di Pellizza con l’erede Angelo Barabino, evoca in realtà la stessa figura di proletario a torso nudo visto, con dinamismo parafuturista alla Muybridge, in tre successivi momenti dello stesso atto dello zappare. Le succede, fra Lussuria del 1910, Strada a Montmartre del 1913 e Tango del 1914, la filamentosa evanescenza alla Previati, verdazzurra dorata o rossoblù. 


GIUSEPPE COMINETTI TRA DIVISIONISMO E FUTURISMO 

VERCELLI, MUSEO BORGOGNA 
FINO AL 30 MAGGIO