sabato 26 giugno 2010

Catacombe Santa Tecla, scoperte le più antiche icone degli apostoli



Sono le prime raffigurazioni dei volti di Pietro, Paolo, Andrea e Giovanni


«Sono le più antiche immagini degli apostoli e risalgono alla fine del IV Secolo». Così Fabrizio Visconti, sovrintendente ai lavori archeologici delle catacombe di Santa Tecla a Roma ha annunciato la scoperta delle icone di Pietro, Paolo, Andrea e Giovanni, le prime raffigurazioni del volto dei quattro apostoli. 

Nelle catacombe di S.Tecla - aveva scritto il 27 giugno 2009, pochi giorni dopo il ritrovamento, l'Osservatore Romano - era stata scoperta la più antica icona di San Paolo. La scoperta era stata fatta grazie all'uso del laser, nel corso del restauro delle decorazioni di una volta di un cubicolo, lo stesso in cui sono state trovate le nuove immagini, datate all'incirca alla fine del IV secolo.

Nascoste per secoli sotto un cubicolo situato sotto un palazzo risalente agli anni '50. Fabrizio Bisconti, sovrintendente ai lavori archeologici delle catacombe di Santa Tecla a Roma spiega che «Per Andrea e Giovanni si tratta delle prime rappresentazioni iconografiche in assoluto, mentre per Pietro e Paolo esistevano già delle rappresentazioni ma mai da soli e mai sotto forma di icona». 

I quattro dipinti, come detto, si trovavano sotto un cubicolo fatto edificare da una nobildonna del tardo Impero romano, che commissionò la decorazione della tomba basandosi prettamente su temi biblici. Il cubicolo e l'intera struttura delle catacombe sono situate sotto un palazzo risalente agli anni '50, la cui costruzione non ha danneggiato i reperti archeologici. «Come facciamo ad essere sicuri che si tratti proprio dei santi apostoli? Abbiamo confrontato le immagini con alcune rappresentazioni degli apostoli che possiamo ritrovare a Ravenna e risalenti a qualche tempo dopo complete anche di didascalia. Pietro, ad esempio, è rappresentato con un'immagine stereometrica e con una incipiente calvizie». 

Le opere come sottolineato da Bisconti, rappresentano un'importante scoperta archeologicama «chi le ha disegnate non era certamente un pittore raffinato, anzi, direi, estremamente corrivo». Nella volta del cubicolo ci sono anche le immagini di una matrona romana e di «un fitto cassettonato che forse imitava la Basilica di San Paolo sappiamo che alla fine del IV secolo era stato ricostruito un "martyrium paolino" e diverse fonti ci dicono che il soffitto era tutti travi e lamine d'oro». 

«Il cubiculo - prosegue il sovrintendente Bisconti - emula un mausoleo o una basilica. Vicino c'è l'immagine di un collegio apostolico con cristo al centro tra gli apostoli, come di solito era raffigurato negli absidi delle basiliche romane. La matrona appare ingioiellata insieme alla figlia in atteggiamento orante». «Alla fine di IV secolo a Roma vive San Girolamo, che dà avvio a una sorta di ascetismo quasi monacale, coinvolgendo diverse matrone della città. E la donna sepolta in quel cubicolo poteva essere una di queste aristocratiche che, convertita al Cristianesimo, viaggia poi in Terra Santa per vedere i luoghi degli apostoli. Poi, al ritorno, fa riprodurre le loro immagini sulla tomba. In ogni caso, sono le icone più antiche a figura intera di Pietro e Paolo e, in assoluto, quelle più antiche di Andrea e Giovanni».

FONTE: ilmessaggero.it

giovedì 24 giugno 2010

A Venezia una storia della fotografia italiana



Una passione lunga un’esistenza, 60 anni di ricerca senza sosta: libri, album, saggi per documentare e raccontare meccanismi, sviluppi, storia talora inedita della fotografia, specie italiana. Questa l’avventura di Italo Zannier, nato a Spilimbergo nel 1932, architetto, fotografo, professore per 20 anni con la prima cattedra di foto in Italia a Cà Foscari e altre facoltà, un personaggio unico, prezioso. Nel 2007 la Fondazione di Venezia si è aggiudicata 12 mila libri, riviste, carteggi, 1.300 foto dal suo archivio. 260 di queste selezionate con l’aiuto dello stesso Zannier sono esposte, a cura di Denis Curti (direttore dell’Agenzia Contrasto), in una mostra stimolante, alla Fondazione Bevilacqua la Masa di Venezia. 

Vi scorre la fotografia italiana in ordine cronologico e tematico. E spiega da un lato il «furore delle immagini» (così Zannier definisce la propria ossessione strizzando l’occhio al Furor Mathematicus di Leonardo Sinisgalli) e dall’altro la lotta combattuta dalla fotografia nell’arco d’un secolo e mezzo per affermarsi quale arte autonoma. In sua assenza, assicura lo studioso (un video ne illustra collezione e protagonisti), non avremmo cinema, tv, Internet. Ed è a partire da dagherrotipi e da forme derivate che il viaggio prende l’avvio con Ritratto d’uomo di Carlo Naya, fissato verso il 1850, che rinvia l’immagine d’un giovane con mano alla bocca, in posa speculare ai dipinti del tempo. Sfilano immagini care all’orientalismo ed esotismo in voga a fine ’800, come la suggestiva Sfinge di Giza di Angelo Beato. 

Presto irrompe il XX secolo con il superamento del pittorialismo e l’immagine «diretta» degli Anni 30-40. Mario Castagneri realizza prodigiosi ritratti di pittori e scultori, mentre avanzano le nuove ricerche di Boggeri, Grignani, Moncalvo (suo il superbo Gesto, 1937). Nella seconda metà del secolo abbiamo la stagione del Neorealismo e quella dei fotocircoli come La Gondola, la Bussola, il Misa. Sfilano vivide, inconsuete immagini di Mario Giacomelli, Piergiorgio Branzi, un’indimenticabile «giornalaia» di Borghesan nel ’54, poi Pepi Merisio, Fulvio Roiter, Giuseppe Cavalli, Mario Finazzi. Rotocalchi e paparazzi sbucano fra i ’50 e ’60, con il primo fotogiornalismo: Tazio Secchiaroli, cantore della Dolce Vita romana. Nino Migliori fronteggia indagini sociali, convincente il suo «Tuffatore». Con nuovi materiali la foto affronta ricerche visive inedite, con Luca Patella, Luigi Veronesi, Franco Vaccari e l’indimenticabile Esposizione in tempo reale alla Biennale. Chiudono i fotografi di ieri ma anche di oggi come Franco Fontana, Gabriele Basilico, Cesare Colombo, Mimmo Jodice, Mario Cresci. 

ITALO ZANNIER 
IL FURORE DELLE IMMAGINI
VENEZIA,FONDAZIONE BEVILACQUA FINO AL 18 LUGLIO

FONTE: Fiorella Minervino (lastampa.it)

giovedì 17 giugno 2010

Art Basel 2010 il gigante con le stampelle

Monumentalità, maxi installazioni: nuova energia, dopo la crisi, nella maggiore fiera del contemporaneo


C’è un gigante bianco con le stampelle ad aspettare i visitatori all’ingresso di Art Basel. L’ha realizzato Thomas Houseago, un artista inglese che lavora tra il Belgio e l’America. Forse questa sua statua stanca rende bene lo stato delle cose nel mondo occidentale, ma non interpreta certo l’euforia con cui la più importante fiera d’arte del mondo, che apre oggi i battenti, sembra reagire alla crisi. Opere monumentali, co-produzione di lavori e progetti, prezzi che salgono alle stelle come alle recenti aste newyorkesi e di conseguenza scambi in cui senti frusciare assegni a molti zeri: Art Basel 2010 racconta un mercato dell’arte che sembra essersi lasciato il peggio alle spalle o quanto meno vuole crederci.

Così si respira molta energia (è la parola chiave che ha usato alla presentazione mattutina Marc Spiegler, direttore della kermesse) ad esempio in «Art Unlimited», la sezione delle grandi installazioni «museali». Le opere hanno qui dimensioni talora colossali, come nel caso di Pipeline Land di Michael Beutler: cataste e cataste di candidi ed enormi spezzoni di tubi per oleodotto, una singolare risposta artistica alla marea nera. Di dimensioni leggermente più ridotte è l’installazione dello spagnolo Sergio Prego, dove ti perdi per decine di metri in un lungo budello di plastica opalescente che può essere nebbia o intestino. E con questa c’è tutto un filone di opere da attraversare fisicamente, che siano gli schermi imponenti con lo splendido video Frontiera di Doug Aitken (con gli stereotipi del selvaggio West rivisitati) o il labirinto di cartone con al centro uno specchio-pozzo di Michelangelo Pistoletto (prodotto dalla galleria Continua) o ancora la stanza buia, Aftermath obliteration of eternity, dove ti trovi prima nel buio e poi in una selva di piccoli lumini accesi: l’ha realizzata la giapponese Yayoi Kusama per Gagosian.
C’è anche un ritorno alla Body Art in chiave erotica con il video Solo di Christian Marclay (lo porta White Cube) dove una ragazza si spoglia a poco a poco mentre fa letteralmente l’amore con una chitarra elettrica, alla maniera (si fa per dire) di Jimi Hendrix. Scarsi i riferimenti allo scontro di civiltà: l’unico lavoro che rimanda al tema dell’islamismo è Cous-Cous Qaaba di Kader Attia: una stanza buia dove il disegno del cubo sacro della Mecca si perde in un deserto di granelli di semola.

Se dal padiglione di «Art Unlimited» si passa alla fiera vera e propria, negli stand si percepisce un clima di forte ottimismo. La crisi è alle spalle? «Di sicuro sembra esserlo per gli americani, che sono tornati in forza ad acquistare» spiega Alfonso Artiaco. «Ma poi, crisi o non crisi, io faccio il gallerista e devo credere nel mio lavoro. Alla crisi puoi rispondere o piangendoti addosso o cercando di reagire. Io ho scelto la seconda strada». E lo si capisce dalla grande e poetica installazione di Kounellis che ha portato in fiera: un’intera parete di legni dorati con davanti un appendiabiti di cappelli e cappotti neri. La quotazione supera il mezzo milione di euro. E non è nemmeno troppo alta per uno degli esponenti dell’Arte Povera che sembra essere quest’anno il movimento italiano di gran lunga più presente in fiera. E con quotazioni in crescita: 2 milioni di euro chiedono da Gladstone per Niente da vedere, niente da nascondere, una storica e semplice vetrata di Alighiero Boetti.

«Siamo noi, paradossalmente» dice Silvia Evangelisti, direttrice della bolognese Arte Fiera, la più importante fiera italiana, «a snobbare il valore di alcuni nostri artisti cui invece il mercato internazionale crede». La Evangelisti mette però in guardia dai facili entusiasmi: «Certo qui respiri il potere dei soldi, ma non è detto, a proposito di crisi, che non si stia annegando con l’acqua alta. Mi sembra ci sia da parte di Art Basel una grande ostentazione di muscoli, ma non è tutto oro quello che luccica». 

Il paradosso è che in piccoli spazi puoi trovare una sfilza di capolavori costosissimi: da Nagy ad esempio scopri che uno Schiele di piccole dimensioni costa 5 milioni e mezzo di euro (e ce ne sono almeno una decina nello stesso stand).

FONTE: Rocco Moliterni (lastampa.it)

lunedì 14 giugno 2010

Djurberg, fantasmi di plastilina

Da Giò Marconi in vetrina sessanta pupazzi-sculture


Grandi occhi cerulei, volto angelico, capelli biondi, minuta, aria inquieta, la svedese Nathalie Djurberg (nata a Lysekil nel ’78, vive a Berlino) libera i suoi sogni, fantasmi, incubi dando vita a una sessantina di pupazzi-sculture, alle quali pare voler dare ordine, togliendole dalle casse e srotolando ciascuna dall’involucro per disporle a loro posto preciso, sopra piedistalli lignei e dentro 41 box in plexiglass, di cui taluni mostrano armature di neon rosa, rossi, gialli, blu; tutti simboli del desiderio d’ascesa spirituale dalle tenebre verso la luce e illuminazione. 

Un universo di sculture, dalle misure varie in plastilina, abitato da fachiri, asceti, indiani in meditazione, uomini che si autoflagellano, asceti sopra letti di spine, piuttosto che la figura allungata fra pile di cuscini in seta,(l’artista riveste i suoi pupazzi), corpi nudi di donne s’allungano, sovrappongono, contorcono, altrove un uomo porcospino procede fra i chiodi che lo coprono, altrove una figura pende dall’albero di fiori di pesco, e un’altra piange mentre le sue lacrime si fanno solide come rami d’un albero; ancora donne nude dalle chiome fulve, occhi sgranati, bocche color fuoco, affrontano possenti rane verdi dalle lunghe zampe rosse e arancio, come in uno dei due video realizzati per questa mostra milanese in stop motion, dove la venefica rana secerne il proprio veleno e offre, secondo gli sciamani, lo stato psichedelico e l’accesso al mondo degli spiriti. 

Ad accompagnare i video, intensamente pittorici nei colori, fondi e figure, è la musica di Hans Berg, compagno dell’artista. Ovunque appaiono, compaiono, si assediano e introducono uno sull’altro, gli animali, dal grigio elefante a lupi, cani, uccelli rapaci, scimmie, ma soprattutto rane e i viscidi serpenti blu, che offrono il nome alla mostra, i quali strisciano, si avvolgono, aggrovigliano, inanellano, circondano, sollevano le sculture sino a smembrare corpi tumefatti. Prossima tappa di questa personale la Kestnergesellshaft di Hannover. Ancora una volta bisogna ribadire che a Milano sono i privati, gallerie, Fondazioni preziose come la Pomodoro, Prada, Trussardi, e talora banche, a proporre l’arte contemporanea degna di interesse. In assenza dei musei pubblici.

NATHALIE DJURBERG
SNAKES KNOW IT’S YOGA
MILANO GALLERIA GIÒ MARCONI
FINO AL 24 LUGLIO

FONTE: Fiorella Minervino (lastampa.it)

mercoledì 9 giugno 2010

Le più belle foto del re dei paparazzi: i clic di Rino Barillari in mostra a Lucca



Dall'11 luglio al 22 agosto un'esposizione sulle icone femminili dagli anni '60 ad oggi


Le più belle fotografie di Rino Barillari “il re dei Paparazzi” in mostra al Palazzo Guinigi di Lucca dall'11 giugno al 22 agosto. L'esposizione “Divas: dalla dolce vita agli ultimi scoop”, dedicata alle icone femminili dai mitici anni '60 ad oggi, colte dall'obiettivo di Barillari, è un'anteprima assoluta organizzata dal LuccadigitalPhotofest con il comune di Lucca, per anticipare la sesta edizione del Festival, che si terrà come di consueto a novembre e dicembre e che quest'anno sarà dedicato proprio alla donna. 

Barillari è un fotografo che ha attraversato la storia del nostro Paese dagli anni '50 fino ad oggi. Nelle sue immagini gli anni del miracolo economico diventano sinonimo di «cronaca rosa» mentre la Hollywood sul Tevere crea la mitica figura del «Paparazzo» consacrata da Fellini ne La dolce vita. L'esposizione rievoca le atmosfere e i volti di quell'epoca per arrivare fino ai giorni nostri, attraverso il glamour e il fascino intramontabile delle dive: Sophia Loren, Audrey Hepburn, Anna Magnani, Anita Ekberg, Ingrid Bergman, Claudia Schiffer, Sharon Stone, Lady Diana e molte altre. Il LuccadigitalPhotofest celebra con questo appuntamento i 50 anni dall'uscita del film di Fellini e dedica un tributo ad un personaggio, Barillari, che rappresenta un modo di fare fotogiornalismo tipicamente italiano: «il paparazzo -dice Barillari- non si arrende di fronte a nulla la "guera è guera"! E poi -aggiunge- questa professione è una scelta di vita!». 

«Sono arrivato a Roma a soli 14 anni e mi sembrava davvero l'America. Ho fotografato tutti, da Richard Burton a Liz Taylor, le ho prese da Peter ÒToole ubriaco, ho fatto a botte con Marlon Brando, karate con Aznavour». Il fotoreporter che, grazie ai suoi scoop, è riuscito a rendere l'affresco di un'epoca, vanta una serie di record: 76 macchine fotografiche fracassate, 11 costole rotte e 162 volte al pronto soccorso.

"DIVAS: dalla Dolce Vita agli ultimi scoop"
Lucca, Palazzo Guinigi - Via Guinigi 
dall'11 giugno al 22 agosto 2010 

Orari
dal lunedì al giovedì 10,00-13,00/17,00-20,00
venerdì, sabato e domenica 10,00-13,00/17,00-20,00/21,00-23,00

lunedì 7 giugno 2010

Pompei sempre più ricca e Polibio diventa un ologramma


Dal primo giugno visita alla grande domus sulla via dell'Abbondanza, guidati nei vari ambienti dal padrone di casa ricreato dalla realtà virtuale. E dalla giovane madre che grida per una inutile fuga. Gli ultimi momenti di una famiglia prima dell'eruzione. Visita a lavori in corso alla domus-panificio dei Casti Amanti fra passerelle sospese e pannelli trasparenti. Con un forno che usava la stessa tecnica moderna di cottura della pizza.


Da oggi due nuove "tessere" si sono aggiunte alla visita di Pompei. La prima è la grande domus di Giulio Polibio, Regione IX, a metà circa di via dell'Abbondanza, l'asse viario più celebre della città sepolta, sul lato sinistro salendo da porta Marina. La seconda è la visita del cantiere (che adesso si è preso la mania di chiamare sempre evento) della domus-panificio dei Casti Amanti, ancora su via dell'Abbondanza. Finora, per i tanti anni di abbandono, i Casti Amanti non apparivano nelle guidedi Pompei. Ora il cantiere è stato protetto da una copertura che ne assicura un intervento completo di tutela e conservazione e per la prima volta di valorizzazione. L'iniziativa, è promossa dal commissario delegato per l'emergenza nell'area archeologica di Napoli e Pompei, Marcello Fiori, e rientra appunto nella valorizzazione del sito archeologico. Apertura regolare tutti i giorni (tranne il primo lunedì del mese) con alcune regole (prenotazione obbligatoria e biglietto aggiuntivo di cinque euro per ciascuna visita e un biglietto integrato di dodici euro, gruppi di 25 persone, durata di circa un'ora, anche in inglese, francese, spagnolo, partenze dalle 10 alle 18). 

La visita didattica alla domus di Giulio Polibio viene definita la prima visita  "multisensoriale",  cioè col padrone di casa, un ricco liberto (sotto forma di ologramma ricostruito su base scientifica, utilizzando i corpi trovati nella domus), che con la voce che gli è stata attribuita accoglie e accompagna i visitatori negli ambienti più importanti fino alla sorpresa finale, particolarmente emozionante. Nell'ultima stanza, inutile rifugio degli abitanti, è stata infatti ritrovata una giovane donna incinta al nono mese. Anche lei apparirà sotto forma di ologramma. Una visita che fornisce tutte quelle informazioni di tipo divulgativo, curiosità, che finora sono mancate ai visitatori, sugli abitanti e la vita quotidiana, l'architettura, le decorazioni, gli arredi ricostruiti, le piante e gli uccelli del giardino. Soprattutto sugli ultimi momenti degli abitanti, con le parole, le invocazioni dei personaggi quel 24 ottobre del 79 dopo Cristo. Sarà importante la reazione dei visitatori a questa novità che qualcuno, scandalizzato per l'improvvida intrusione, aiutato da certe frasi ("Ave gens"), è subito pronto a definire più degna di "Disneyland".    

La visita ai Casti Amanti è a lavori in corso perché si possono vedere all'opera archeologi e restauratori.  Un sistema di passerelle sospese fanno scoprire dall'alto "perfettamente conservati, il forno della panetteria, le due stalle con scheletri di animali, un giardino fedelmente ricostruito, mosaici e affreschi" che danno il nome all'edificio. I lavori sono visibili anche da via dell'Abbondanza attraverso pannelli trasparenti. Tecnologie multimediali riproducono la funzione degli ambienti. Con la visita alla domus di Giulio Polibio si corona circa un secolo di scavi irregolari e contrastati. La domus venne infatti scoperta  ai primi nel Novecento con lo scavo di via dell'Abbondanza e la messa in luce  della facciata, ma i lavori ripresero solo nel 1966 e la liberazione dell'intero edificio fu completata nel 1978. La domus venne restaurata  fra il 1993 e il 1998. 

La prima origine risale alla fine del III secolo avanti Cristo. La forma è quasi rettangolare con una superficie di circa 900 metri quadri con due ingressi su via dell'Abbondanza. I settori padronale e di servizio sono nettamente distinguibili e su quello di servizio venne aggiunto  un piano superiore. Al centro un giardino a pianta quadrata  che al momento dell'eruzione era piantato a frutteto. Nel 79 forse la casa apparteneva  ad una famiglia di liberti di origine greca. Nelle vicinanze e all'ingresso sono stati trovati manifesti che invitavano a votare per "C. Iulius Polibyus", edile e candidato al duovirato. In uno degli armadi di legno  sotto il porticato del giardino il sigillo in bronzo del probabile padrone di casa "C. Iulius Philippus". 

Il cosiddetto vestibolo conserva parte della decorazione in "primo stile". Antonio d'Ambrosio ci ricorda che della minuscola cucina sono stati "recuperati e ricostruiti tutti gli elementi della copertura, comignolo incluso". Sul bancone sono state trovate  le pentole di uso quotidiano, un tripode in ferro e una graticola. Accanto alla cucina un grande dipinto  rappresenta un "larario" dove si veneravano le divinità domestiche. La stanza centrale conserva una "bella decorazione" a parete di "terzo stile" mentre nella stanza da pranzo, il grande triclinio, un dipinto raffigura  il mito di Dirce legata ad un toro ad opera di Anfione e Zeto per punirla  dei maltrattamenti alla madre. Qui sono stati trovati un "Apollo Lampadoforo" in bronzo, alto 128 cm, e un monumentale cratere a calice, sempre di bronzo, alto 63 cm, "finissimo oggetto di arredamento".

I visitatori sono accolti da Giulio Polibio nell'atrio con "impluvium", l'apertura centrale con la vasca che raccoglie l'acqua piovana (già gli operai al lavoro nell'atrio danneggiato dalle prime scosse sono in allarme) e "condotti" da lui nei vari ambienti fino all'ultimo nel quale si era rifugiato il maggior numero dei familiari. Qui si materializza l'ologramma della giovane donna che lancia quelle che saranno le ultime parole sotto la nube ardente e le ceneri del Vesuvio: "Correte, portate con voi tutto ciò che volete salvare! Asserragliamoci nell'ultima stanza, in fondo, dopo il peristilio!". Inutilmente.

Oltre alla voce narrante il visitatore è accompagnato da una installazione sonora denominata "Opera Regio IX" (progetto del prof. Claudio Rodolfo Salerno, presidente dell'Istituto per la diffusione delle scienze naturali, collaborazione di Paola Ricciardi e Luigi Stazio, con Fulvio Liuzzi, ingegnere del suono). Nell'atrio si odono suoni dalla strada, rumori dei lavori di ristrutturazione della domus al momento dell'eruzione (ritrovati calce, intonaco, chiodi e martelli). Nella piccola cucina sono stati riprodotti i suoni del vasellame, di un mortaio, del fuoco acceso, di una piccola macina. Di cereali e di acqua versata. Non sono sfuggiti la "cottura di una pietanza a base di cervo ed un echeggiare di suoni caratteristici a simboleggiare le spezie dell'Africa". 

Nell'"impluvium" "suoni e rumori che richiamano l'alternarsi di giochi di aria ed acqua". Nel giardino "risaltano tutti i suoni della natura". Uccelli notturni e diurni, il vento fra gli alberi. "Un richiamo esplicito alla tartaruga di cui è stato ritrovato il carapace". Vengono "tradotti in suoni gli odori ed i colori dei fiori e dei balsami" (contenuti negli armadi), con un richiamo a Plinio che mette in guardia nella Storia naturale: "Le piante che fioriscono in modo più vistoso sono quelle che appassiscono più in fretta". Ma il giardino era anche "un luogo di ritrovo, di amore e di giochi" e allora c'è una "donna che ride, una coppia che gioca a dadi, il tintinnio di un bracciale e lo spegnimento delle lucerne". Nell'ultima stanza dove sono stati trovati quattro corpi e un feto, l'ologramma evanescente della giovane, insieme all'audio dell'eruzione, al rumore degli scavi che raccolgono il regalo più grande che un cataclisma naturale ha fatto all'archeologia.

FONTE: Goffredo Silvestri (repubblica.it)

venerdì 4 giugno 2010

Gottlieb, O'Keeffe Hopper Al Mart l'America di oggi in 100 spot



A Rovereto una grande mostra celebra l'arte statunitense moderna attraverso i capolavori della collezione di Duncan Phillips. Una storia avvincente, un autentico spaccato della civiltà a stelle e strisce. Fino al 12 settembre


C'era una volta in America, l'arte moderna e contemporanea. Una storia intensa, ricca e avvincente, forse non del tutto conosciuta, che si deve principalmente al collezionista appassionato e squisitamente campanilista Duncan Phillips, che nel 1921 all'atto di fondazione della sua autorevole Phillips Collection di Washington scriveva: "Il nostro proposito più entusiastico è di rivelare la ricchezza dell'arte creata negli Stati Uniti, di stimolare i nostri artisti autoctoni e offrir loro ispirazione... di mostrare come i nostri artisti americani mantengano una parità, se non proprio una superiorità, rispetto ai più noti contemporanei stranieri". Un progetto ambizioso e tutto sommato unico che viene ripercorso dalla mostra "Arte americana 1850-1960 Capolavori dalla Phillips Collection di Washington", in scena dal 5 giugno al 12 settembre al Mart di Roveret, curata da Susan Behrends Frank e Gabriella Belli. 

Duncan Phillips fu sì protagonista di importanti "imprese" culturali legate all'arte (oltre al MoMA, come illustra Elisabetta Barisoni, fu membro del consiglio direttivo della National Gallery di Washintgon, e venne coinvolto nell'apertura del Whitney Museum of American Art nel 1931, della Gallery of Living Art nel 1927, del Museum of Non-Objective Painting poi Guggenheim, aperto nel 1939), eppure mantenne intatta la sua risolutezza collezionistica per raccontare in modo fluido e dilatato l'arte d'oltreoceano, con un progetto che sviluppò dagli anni Dieci del Novecento agli anni '60 (morì nel '66), scoprendo e promuovendo artisti interessanti e di talento come Arthur Dove, John Marin o Milton Avery, considerato dai critici "il Matisse americano". 

La mostra, dunque, è una splendida passeggiata nei giardini di questo parco americano, dove un centinaio di opere, articolate per gruppi tematici, indagano le ricerche espressive dalla seconda metà dell'800 ai primi sessanta anni del '900. Non altro che "l'impegno di una vita per assemblare una collezione della miglior pittura americana che tutti potessero vedere e apprezzare", come dice Susan Behrends Frank. Un viaggio nell'universo America che fluttua tra i capolavori assoluti di Edward Hopper, Georgia O'Keeffe, Jackson Pollock, Alexander Calder o Mark Rothko, che hanno scritto splendid capitoli di uno stile tutto made in Usa, ma che sa restituire il brio e la verve di maestri come John Sloan, Stuart Davis, Adolph Gottlieb, Philip Guston, Robert Motherwell, Clyfford Still, Sam Francis. 

Tra quel realismo forte e impietoso che ha reso grande l'Ottocento, per poi passare al vezzo raffinato e virtuoso di un impressionismo che spiana la strada a ricerche impervie nei sentieri dell'espressionismo e dell'astrattismo, che con la New York School ha stregato, ammaliato, calamitato gli spasmi e le euforie creative di tutto il mondo (soprattutto di quel mondo contaminato e piagato dalla seconda guerra mondiale). Un modo diverso anche per raccontare l'America a cavallo due secoli, dalle radici della modernità riconosciute nel romanticismo degli antichi maestri come George Inness, Albert Pinkham Ryder, e James Abbott McNeill Whistler, all'impressionismo non di maniera di Childe Hassam alla strada audace e non banale dell'astrattismo declinato nelle sue varianti tematiche, capitanato dai dipinti di John Marin (Weehawken Sequence, No. 30 del 1916), artista che Phillips scoprì nel 1926 nella galleria newyorchese di Alfred Stieglitz, e che lanciò con la sua prima mostra personale (portandolo poi alla Biennale di Venezia del 1950 con oltre cinquanta opere). 

E sempre da Stiegliz, scoprì Arthur Dove e Georgia O'Keeffe. Splendide poi le atmosfere della metropoli americane tra il neocubismo di Stefan Hirsch, e il realismo magico di Edward Hopper. Non mancano le fotografie di Paul Strand, Berenice Abbott e Margaret Bourke White. E suggestivo è il capitolo sulla Grande Depressione dove pittori come John Kane, Horace Pippin, Jacob Lawrence, immortalano le migrazioni verso il nord degli Stati Uniti, la vita nei sobborghi e l'epopea del jazz. Le neoavanguardie storiche sfilano con John Graham, e Stuart Davis (un crogiuolo di Picasso, Henri Rousseau, Georges Braque e Matisse). La grande stagione dell'astrattismo è una sequenza radicale e mozzafiato di Alexander Calder, Milton Avery, Mark Rothko e Jackson Pollock. Ma anche di Adolph Gottlieb, pioniere dei pittogrammi, giochi di calligrafismi privati dettati dal subconscio e da quell'interesse per l'arte tribale africana e per quella dei nativi Americani. 


Notizie utili  -  "Arte americana 1850-1960 Capolavori dalla Phillips Collection di Washington", dal 5 giugno al 12 settembre 2010, MartRovereto, Corso Bettini, 43, Rovereto (Tn).
Orari: mar.  -  dom. 10.00 - 18.00, ven. 10.00 - 21.00, lunedì chiuso.
Ingresso: intero €10, ridotto €7.
Informazioni: 800 397 760, 0464 438 887, www.mart.trento.it
Catalogo: Silvana Editoriale

giovedì 3 giugno 2010

Francesconi, un viaggio lungo 50 anni



Apre a palazzo Medici Riccardi a Firenze una mostra del pittore e scultore: un grande "racconto" del Novecento

"Viaggio 1960-2010". È stata intitolata così la personale di Mario Francesconi che inaugura giovedì a palazzo Medici Riccardi a Firenze. Un'occasione per festeggiare i cinquant’anni di attività dell'artista e per conoscere il percorso di una figura significativa dell'arte contemporanea italiana ripercorrendo la sua storia a partire dagli esordi romani nei primi anni '60, sotto gli auspici di Emilio Villa. L’esposizione, curata e allestita dallo stesso artista, unisce uno sguardo retrospettivo sui lavori del passato alla presentazione della produzione più recente e, attraverso materiali documentari inediti, racconta le amicizie e le frequentazioni di importanti protagonisti dell'arte e della letteratura del secondo Novecento: Cesare Garboli, Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini, Romano Bilenchi, Sandro Penna, Venturino Venturi, Giovanni Michelucci, Mario Tobino, Mario Luzi, Adriano Sofri (che firma un contributo nel catalogo).
PERCORSO - La mostra - articolata tra il Giardino, la Limonaia di Palazzo Medici Riccardi (con installazioni create ad hoc), le Sale Espositive (con la parte antologica, le opere inedite e la rassegna documentaria) e la Sala degli Uscieri (con un apposito bookshop d’artista) - ripercorre le tappe e le diverse fasi del percorso dell’artista (Viareggio, 1934). Al giovanile interesse per la figura come eros negli anni Cinquanta e nelle prime esperienze romane, segue un periodo di intensa sperimentazione caratterizzato dall'utilizzo di materiali di recupero e dalla realizzazione di straordinari monocromi e collage, che caratterizzano la ricerca artistica di Francesconi negli anni Sessanta. Poi, fino a metà degli anni Novanta, predomina una pittura riconducibile all’indagine sulla figura, sul volto, sull’animale, su concetti architettonici e a un’intensa ricerca sulla forma e la composizione.
CICLI - Il rapporto tra figura e forma dà vita a veri e propri cicli pittorici con soggetti particolari ricorrenti, come Tobia, l'affezionato cane, la casa versiliese di Marta Abba, volti fantastici, paesaggi urbani e marini. Ancora sperimentazione nell'uso dei materiali poveri e dei collage, con i cicli di ritratti di Samuel Beckett e del grande amico Mario Luzi, centinaia di opere, un infinito ritrarre "a memoria" per carpire la verità, la vita e la morte dei due personaggi, nella dinamica di una vera ossessione produttiva. Un altro importante ciclo è composto dagli Archetipi, forme primarie ripetute e variate attraverso centinaia di dipinti, sculture e collage. I libri d’artista costituiscono un’altra parte importante e costante dell’attività di Francesconi, sono pezzi unici interamente dipinti e assemblati, con un grande rilievo dato alle possibilità di sviluppo materico e tridimensionale. Più recenti sono le sperimentazioni con il video e il suono, a partire da un concetto di partitura musicale.
MANIFESTAZIONI - Il progetto è promosso e organizzato dalla Provincia di Firenze in collaborazione con Gabinetto G.P. Vieusseux e Maschietto Editore, con il sostegno della Regione Toscana. La mostra è la prima di una serie di manifestazioni nazionali che lungo il 2010 celebreranno l’artista viareggino. A Firenze, parallelamente alla mostra, si svolgono altre iniziative a lui dedicate, tra cui un evento teatrale di Giancarlo Cauteruccio della Compagnia Krypton, ambientato a palazzo Medici Riccardi, che mette in luce il rapporto ideale e artistico tra Mario Francesconi e Samuel Beckett.
"Mario Francesconi. Viaggio 1960-2010", palazzo Medici Riccardi, via Cavour 3, Firenze. Inaugurazione giovedì 27 maggio alle 18. Orario: 10-18 (chiuso mercoledì). Info: 055.7135472. Biglietteria: 055.2760340. Il biglietto (7/4 euro) consente la visita alle sale di palazzo Medici Riccardi.
FONTE: corriere.it

martedì 1 giugno 2010

Fissore, frammenti di vita sugli schermi



Il giorno dell’inaugurazione pioveva e l’atmosfera grigia era perfetta per apprezzare la Video Pittura di Daniele Fissore. Attenzione però, il titolo non allude a qualcosa di tecnologico; si tratta, invece, di quadri dipinti adottando uno stile realistico e una tecnica virtuosisticamente analitica, quasi alla Vermeer, per raffigurare scorci d’interni domestici riflessi sopra lo schermo di una televisione spenta. Opere dove la dominante cromatica grigio-azzurro è tipica di una Torino ancora avvolta da brume invernali. Chi conosce il Fissore dei verdissimi campi da golf e delle solari marine azzurre turchesi, stenterà a riconoscere in questi lavori inediti l’autografia del artista torinese affascinato dalla realtà, fino a sfiorare l’iperrealismo.

In Video pittura ogni opera è una sorta di metapittura, perché sullo schermo televisivo dipinto, si rispecchiano gli interni di un alloggio, con un angolo di soggiorno, un divano, una sedia, o la camera da letto, e quasi sempre, c’è ancora un terzo livello perché una finestra aperta ci consente di andare più in là con lo sguardo e oltre le tende s’intravede la città. Tutto è raffigurato con una prospettiva deformata, estroflessa, come negli specchi convessi di certi pittori rinascimentali, fa notare Francesco Poli nella presentazione al catalogo. Fissore è un artista che scava nella memoria visiva del suo/nostro passato rendendo tangibili nei suoi perfetti e duraturi acrilici su tela, stralci di ricordi effimeri cui siamo affettuosamente legati:

DANIELE FISSORE, VIDEO PITTURA TORINO, GALLERIA GIORGIO MAROSI
FINO AL 12 GIUGNO