giovedì 30 settembre 2010

Sogni, enigmi e ossessioni in mostra il genio di Dalì


A Milano, a Palazzo Reale, fino al 30 gennaio 56 opere del maestro surrealista. E spunta anche il cartone animato che l'artista spagnolo voleva fare con Walt Disney


Salvador Dalí salvato da Pocahontas. Nella piccola grande antologica di cinquantasei opere, "Salvador Dalí. Il sogno si avvicina", che il Palazzo Reale dedica al sublime maestro del surrealismo spagnolo dal 22 settembre al 30 gennaio, la vera chicca imperdibile che ne risolleva le aspettative è il cortometraggio d'animazione "Destino", frutto di uno sperimentale  -  forse troppo - progetto cinematografico di Dalí e Walt Disney. E' il viaggio onirico di una splendida fanciulla dai lunghi capelli neri, sensuale nel suo abito tunica che attraversa luoghi e tempi remoti permeati dalle icone della fantasia disinibita e sontuosa dell'artista. Un'opera lasciata in sospeso nel 1946 dopo un anno di collaborazione, e "animata" sulla base di disegni, schizzi e storyboard autografi di Dalí conservati presso l'Animation Research Library dei Walt Disney Animation Studios di Burbank in California solo nel 2003, per essere catapultata tra un premio e l'altro alla corsa all'Oscar. 


E ora per la prima volta viene proiettata in Italia, scortata da alcuni dei disegni originali più suggestivi. Se nel percorso espositivo, il capitolo Disney di Dalí appare come l'epilogo delle quattro sezioni, diventa invece la tappa più originale e interessante di una mostra, curata da Vincenzo Trione e realizzata in collaborazione con la Fondazione Gala-Salvador Dalí di Figueras, che riassume in pillole la produzione dell'artista attraverso il complesso tema del paesaggio. Argomento non certo banale né scontato per uno come Dalí, che ha fatto del sogno, della paura, dell'amore e dell'enigma il palcoscenico delle sue ossessioni. 

Nato a Figueres in Catalogna l'11 maggio del 1904, studiò a Madrid Belle Arti facendo amicizia con Garcia Lorca e Luis Buñuel, per poi sbarcare a Parigi e dividere la scena del movimento surrealista con Mirò, Breton e Eluard (e la moglie di quest'ultimo, Gala, che diventerà sua amante, modella, musa e poi moglie). Ma del surrealismo Dalí escogitò una personalissima formula espressiva, secondo un  metodo che lui stesso definì "paranoico-critico", sulla lezione della psicanalisi freudiana. Il suo diventa uno stile illusionistico incentrato sulla serialità di immagini-simbolo legate alle sue ossessioni più violente, macabre, tragiche, dolenti, goliardiche, ma anche spirituali, dal voyeurismo alla castrazione, dalla putrefazione all'impotenza e alla coprofilia. 

Il tema del paesaggio scelto dalla mostra vuole essere un fil rouge per indagare la dimensione più mistica, classica, psicologica e romantica dell'artista attraverso pochi ma pregevoli prestiti, dal Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid, al Boijmans Museum di Rotterdam fino alla collezione d'arte contemporanea dei Musei Vaticani. Dove spicca nell'allestimento il contributo dell'architetto Oscar Tusquets Blanca, amico e storico collaboratore di Dalí: con una buona dose di esuberanza teatrale, viene infatti ricostruita in modo perfettamente filologico la celebre Stanza di Mae West, che Tusquets Blanca realizzò in accordo con l'artista nel suo museo di Figueras. Come rivelò lo stesso Dalì in un'intervista, riportata in mostra, gli specchi utilizzati a Figueras dovevano essere in realtà sostituiti con schermi televisivi, testimoniando la sua precoce intuizione sul potere mediatico. A memoria di questo ambiente, sfila anche lo strafamoso sofà "Dalilips", forgiato in gesso dipinto a forma di labbra dell'attrice statunitense sex symbol Mae West. 

L'immaginario surrealista di Dalí, tra pittura, scultura e design,  scorre in opere che raccontano la sua sensibilità all'universo del passato, "La Venere di Milo" con i cassetti, da Rotterdam, o le citazioni da Velaquez. Così come nella violenza gratuita e irrazionale della guerra tratteggiata con colori vividi e freddi e soggetti straziati, come "Melanconia Atomica" da Madrid e "Visage de la guerre" da Rotterdam. Per attraversare tutti i deliri dell'inconscio, incapsulati in alcune opere clou, come "Tre età" dal Museo di St. Petersburg in Florida, "Ricerca della quarta dimensione" direttamente da Figueras, "Cammino dell'enigma", dalla Fondazione Gala- Salvador Dalí Reina Sofia, "La mano di Dalí toglie un Toson d'Oro a forma di nuvola per mostrare a Gala l'aurora tutta nuda..." da Figueras, passando per l'esistenzialismo religioso col "Crocifisso" del '54, dai Musei Vaticani. Per un gran finale di "silenzio cosmico", col monocromo azzurro spaccato in modo da sembrare, come dice Vincenzo Trione, "un involontario cretto": è "Il  rapimento di Europa" (1983) conservato a Figueras l'ultimo olio dipinto dall'artista prima della morte, avvenuta nel 1989.

Notizie utili - "Salvador Dalí. Il sogno si avvicina", dal 22 settembre al 30 gennaio 2011, Palazzo Reale piazza Duomo. Milano
Orari: martedì-domenica 9:30-19:30, lunedì 14:30-19:30, giovedì e sabato 9:30-22:30.
Ingresso: intero €9, ridotto €7,50.
Informazioni: 02-54913, www.mostradali.it 2
Catalogo: 24 Ore Cultura  -  Gruppo 24 Ore

lunedì 27 settembre 2010

Con quelle facce da Bronzino

A Firenze una grande mostra capovolge il luogo comune d’un pittore algido e glaciale. Nel suo Manierismo ci sono già Ribera e Caravaggio


Senza un filo di retorica. Ma se ci è dato di vedere una mostra così grandiosa ed intelligente e realmente innovativa, vuol dire che ancora un briciolo di speranza ci resta, in questo paese quasi perduto e arrangiato e pasticcione, anche (soprattutto?) per quanto riguarda le cose dell’arte e della cultura. Imparagonabile, a quel che passa d’abitudine il convento: nell’ottimo, discreto quando grandioso allestimento blu-nero e bronzinesco di Luigi Cupellini ci avverti i quattro intensi anni di studio e preparazione, da parte d’una coppia affiatata ed entusiasta come Carlo Falciani e Antonio Natali. E godi epidermicamente (le stoffe, gli sguardi, le sprezzature) ma anche intellettualmente, d’un sorprendente rivolgimento d’immagine. Non solo del solo Bronzino, popolarissimo ma sconosciuto, a quanto qui appunto si scopre. Ma pure d’un periodo-chiave, quale quello del Manierismo, che credevamo ormai, con sufficienza, redento, sarchiato e sistemato. Congelato. 

Ma appunto: qui è in gioco, trionfalmente, scenograficamente e pure capillarmente, il gran teatro, folgorante e liquido, dello scongelarsi degli stereotipi critici, e degli aggettivi e degli attributi «frigidi», cristallini, che da sempre si son appioppati all’incolpevole Bronzino. Che non faceva bronzea scultura, ma che soprattutto non si meritò quel nome d’arte perché dipingeva con forme metalliche, incise, di pietra dura - come si pensa (anzi, qui si scopre che non dipingeva, episodicamente, nemmeno sul cupreo, vibrante rame, ma sul più sordo, sommesso stagno) soltanto forse perché era di pelle scura: un paradossale «meticcio» fiorentino. «Algido», «glaciale», «aulico», sentenziano tutti in coro, e Adolfo Venturi, con la sua prosa immaginosa, lì a descriver «ritratti, nel quale è inciso il segno come su cristallo, tornita la forma, e grande l’elezione stilistica. (Sinché) l’artificio s’impadronì dei corpi e della natura circostante, vi sparse l’acqua colata dalla ghiacciaia del Concilio di Trento e della Controriforma». 

Ma se si fosse letto meglio quel volpone di Longhi, ben presente ai nostri curatori (ed indeciso lui, al bivio decisivo fra Piero della Francesca e Caravaggio, nel '27) forse certe scorciatoie rigide nel definire la Bella Maniera non avrebbero preso campo. Intanto perché si era reso conto che «più di quanto non si pensi, Firenze nel secondo Cinquecento era una fucina di tendenze e che proprio nel cuore dei movimenti più irrealistici di Bronzino e Pontormo si possono leggere con una buona lente d’ingrandimento frammenti e residui di una vena naturalistica, amorosa e dedita alla apparenza ottica delle cose, ai “valori” che è probabilmente eredità di uno degli aspetti dello spirito figurativo del Quattrocento», ma che procede «entro l’ambiente, con una lucidità di “valori” degna di un olandese del secolo dopo». 

L’infilata di soli capolavori, scelti con cognizione, è disposta con logica stringente nelle varie sale a capitolo: la formazione fiorentina tra Raffaellino del Garbo e Pontormo (con la sola dolorosa assenza dell’Alabardiere di quest’ultimo) lo scatto incredibile tra Urbino e Pesaro, ove assorbe Piero, Bellini, Barocci, Tiziano, lavora accanto a Dosso, e forse usa Parmigianino e Lotto, poi il rapporto con i Medici, il dialogo pittura/scultura, l’arte sacra, ecc... Questa prima monografica a lui dedicata nasce là dove si era chiusa la mostra sull’Officina della Maniera, funestata dalle bombe mafiose, e non cancella, va da sé, l’impressione prima e tribunizia (alludiamo alla Tribuna degli Uffizi, ove prima dei restauri, dominava quel suo tono effettivamente austero e specchiato e scostante) di un Bronzino, smaltato di bellezza e superbo d’ornamenti e di gioielli di parata. Sarebbe stolto ribaltare la vulgata. Ma se lo si legge con più amore, quell’amore consigliato dal Longhi, si percepiscono assai meglio e più sovversivamente, il trepidare di certe carnagioni umanissime, la complicità più accostante per quel pupattolo baffuto, ancora col suo dentarolo di corallo ma già progettato cardinale, che è Don Giovanni, e l’accidia «more Carlo V», imperial-asburgica, di Cosimo, e il sopracciglio malandrino di tanti dandy spadaccini dell’epoca. 

Vasari tiene a dire che Bronzino era di Pontormo «dolcissimo e molto cortese amico, di natura quieto e non ha mai fatto ingiuria a niuno». Tranne che con il fiele del pennello: come quando s’accanisce contro quella parvenu arricchita della mercantessa di stoffe, dalla mutria pienotta da bottegara avida, e tutt’intorno uno zampillare disordinato di seterie, già ingresque, che fanno molto pezze intrattenibili da bancone, e che son così atipiche, per l’olimpico Bronzino (mentre il consorte più intellettuale può vantare una Venere pudica, di blu già molto Yves Klein). E quei cagnoni festosi ed invadenti, che aggrediscono le balaustre, pur di rimaner vivi, inguinzagliati dallo scatto. Si rilegga Vasari, infatti, che concede a Bronzino quel che non passa allo «scorretto» ritrattista Tiziano: «Belli a meraviglia e condotti con infinita diligenza, tanto naturali che paiono vivi e che non manchi loro se non lo spirito». 

Poi ci segnala anche «un Cristo crocefisso, onde ben si conosce che lo ritrasse da un vero corpo morto confitto in croce»: ed eccolo qui, incredibilmente riscoperto a Nizza, in odore di eresia riformata. Terribilmente nudo e solo: agonia della bellezza. Giansenista quasi, anche se subito mescolato alla sua musa comica (il sonetto bernesco alle cipolle) perché era anche poeta e sarcastico. Lo cacciano dall’Accademia, e richiesto del suo autorevole parere sulla disputa tra scultura e pittura, risponde con una lettera che provocatoriamente non finisce e con un portentoso nano Morgante, nudo, dipinto davanti e dietro, prima e dopo la caccia, come a dire che la pittura può imitare la varietà di prospettive e il passare del tempo, come la scultura. Nudo, storpio, scandaloso: e nella stanza, come storce il naso ulcerato, la puritana poetessa Battiferri, con il suo petrarchino come scudo, e l’urticato casentino da corazza. Non vuol assistere a tanto annuncio del Seicento naturalista: che par già di Ribera, o d’un caravaggesco.

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

lunedì 20 settembre 2010

Messo all'asta da Sotheby's il libro più costoso del mondo


E' una rarissima copia del volume di John James Audubon ‘Uccelli d’America’. Andrà all'incanto a Londra il 7 dicembre assieme a una prima edizione di 36 lavori teatrali di William Shakespeare


Una rarissima copia del volume di John James Audubon ‘Uccelli d’America’, considerato il libro piu’ caro del mondo, sarà messo all’asta ad Sotheby’s a Londra assieme a una prima edizione di 36 lavori teatrali di William Shakespeare. La stessa casa d'aste lo ha annunciato, attirando l'attenzione dei tanti collezionisti.
Di ‘Uccelli d’America’, un libro illustrato dell’Ottocento, restano appena 119 esemplari di cui 108 di proprieta’ di musei e biblioteche: uno di questi, completo come quello all’incanto il 7 dicembre, passo’ di mano dieci anni fa per 8,8 milioni di dollari, un record mondiale in un’asta.
Il Primo Folio di Shakespeare, pubblicato nel 1623, e’ stato stimato un milione e mezzo di dollari circa.
FONTE: quotidiano.net

mercoledì 15 settembre 2010

Galleria nazionale d'Arte antica Il sogno si avvera a Palazzo Barberini


Il 19 settembre si inaugura la Pinacoteca. restaurati piano terra e primo piano: 24 luoghi di esposizione



La speranza che «tante meravigliose raccolte romane offrano la gloria di formare una galleria degna della Capitale», la volontà di dare «un decoroso collocamento» alla Pinacoteca d’arte antica a Roma: si può dire finalmente? Infatti, sono annunci, rispettivamente, del 1883 e del 1949: 127 anni ci sono voluti per dotare l’Urbe d’una struttura fondamentale, che qualsiasi Capitale possiede, ma da noi era dimezzata, a scartamento ridotto, sacrificata e in comproprietà. Invece, ora ci siamo: domenica 19 settembre sarà un giorno davvero importante; non torna ma nasce, liberata da tanti orpelli e restaurata, la Galleria nazionale d’Arte antica a Palazzo Barberini, acquistato per la bisogna, appunto 61 anni fa. Nel tempo (ma non troppo), dall’edificio se ne sono andati un custode in pensione e un barbiere che faceva i capelli agli ufficiali (ci avevano casa), l’Ente Premi Roma e il Circolo -s’intende- delle Forze Armate, ora alla Palazzina Savorgnan di Brazzà; «nel 2003, ricordo una “barbona” che veniva a lavarsi ogni giorno nella fontana dell’atrio», racconta sorridendo la soprintendente Rossella Vodret.

Ora, più nulla: a Palazzo Barberini, liberato dai militari quando Alberto Ronchey era ministro, non ci si sposerà più; ci si andrà ad ammirare una delle più formidabili quadrerie del nostro Paese: «Nessuno ha altrettanti Caravaggeschi al mondo», dice la direttrice Anna Lo Bianco. Restaurato tutto il piano terreno, che era Circolo Ufficiali, e cinque sale al piano nobile, il primo: in tutto, diventano 24 luoghi da esposizione, quindi si può cominciare a ragionare. In più, i saloni monumentali, primo quello di Pietro da Cortona. In mostra, e non più nei depositi, tutta la pittura italiana dalle origini appunto fino ai Caravaggeschi; «per il dopo, da Gaulli fino a Canaletto, appuntamento a marzo, quando saranno conclusi i lavori nelle 12 sale al secondo piano, e ci saranno anche, espletate le gare d’appalto, libreria e caffetteria», continua Vodret. E Anna Lo Bianco: «Così, si sono recuperati dai depositi, per esempio, tre dipinti di Giovanni Bellini e Lorenzo Lotto, due Ritratti virili, e di Raffaello, una Testa di giovane; i primi, Dono dei Torlonia nel 1892, il terzo un frammento d’affresco, regalato nel 1915 da Enrichetta Hetz»; e Vodret: «In più, per 5 anni, Giancarlo Jacorossi e i suoi fratelli offrono in comodato una splendida Crocetra il XII e XIII secolo, di un allievo del pittore di Spoleto Alberto Sotio, che affiancheremo ad altri esemplari già della Galleria: paragoni interessanti, del tempo di Cimabue; e anche un precedente di cui Roma ha bisogno: chissà che sia imitato da altri collezionisti».

«Con un nuovo ingresso, una nuova biglietteria, la Galleria d’Arte antica, finalmente diventerà degna del nome» (sempre Vodret); eppure, sull’altana, splendido panorama, resiste l’Istituto italiano di Numismatica: «C’era già nel 1980, quando io sono arrivata e dirigevo la Galleria con Lorenza Mochi, occupa circa 600 metri quadrati», continua Vodret; proveranno a chiedergli un trasloco, ma chissà. «Rifatti tutti gli impianti, i pavimenti, i servizi» (Lo Bianco). E non ci si attovaglia, era ora, più: spazi ulteriori per la grande arte che la Capitale possiede. La Galleria Corsini è un discorso diverso: lo facciamo a parte. La serata del 19 diverrà un evento: dalle 19 a mezzanotte, musica, giochi di luce e addirittura balli, senza prenotazione e gratis; una “navetta” collegherà con i giardini di Palazzo Corsini e l’Orto botanico, dove si suonerà jazz, e Villa Farnesina, per ammirare gli affreschi di Raffaello e Sebastiano del Piombo; a Palazzo Barberini, c’è già da immaginarselo, code per l’Annunciazione di Lippi, i Caravaggio, la Fornarina: fossimo a Venezia, forse Sgarbi ci collocherebbe vicino una prosperosa panificatrice a seno nudo, ma qui no, anche se al dipinto, che torna dopo due anni di restauri, sarà doverosamente dedicata una mostra speciale, perché tutti, romani e non, tornino ad abituarsi alla presenza di un capolavoro assoluto.


E con Raffaello e i Caravaggio, tornerà Antoniazzo Romano; Poussin e Valentin de Boulogne usciranno dai luoghi dove non potevano essere mostrati: una panoramica esaustiva della poittura di un periodo in cui Roma era regina ancor più che non oggi. Il palazzo, acquistato nel 1949 espressamente per essere destinato a sede della Galleria, per troppo tempo è stato impossibile liberarlo a dovere, specialmente, ma non solo, del Circolo Ufficiali delle Forze Armate (nonostante fosse scaduto perfino il contratto d’affitto); quella che vede la luce non è quindi soltanto una Pinacoteca, ma anche la fine di una brutta avventura. Abbiamo dovuto attendere 127 anni, come per un auditorium Roma ha dovuto aspettarne 67 dal 1936; ma, ne siamo certi, ne valeva davvero la pena.

FONTE: Fabio Isman (messaggero.it)

lunedì 13 settembre 2010

Tullio Pericoli, i volti sono paesaggi

All’Ara Pacis i lavori dell’artista marchigiano


Si veda, nell’insolito catalogo Skira, dalle oblunghe vedute pieghevoli, di questo scarmigliato Bellotto marchigiano-moderno, quante mai pagine e pagine luminose, da parte di firme illustrissime e consonanti, spesso recidive, sian gemmate dall’osservazione complice e devota di quest’ormai conclamata «magnifica ossessione» dei duplici volti vissuti: insieme appezzamenti territoriali di fisionomie umane, e trafficati «visi» di leopardiani paesaggi. Ma le parole riemergono ogni volta fresche, inedite, senza mai voltarsi a ripetere quello che già è stato osservato. Come ora, nel caso di Bodei, D’Amico, Federica Pirani. 

Ma simile virtù non è pregio soltanto di tanti abili naviganti nel mar della parola. È piuttosto insita nella qualità, nella fantasia inesauribile di Pericoli, che diresti ogni volta riaffrontare l’ennesimo refrain alla Lully, le più prevedibili fioriture belcantistiche dei suoi «soliti» colli del Tronto o la carta del tenero dei suoi più consolidati concittadini d’anima, e invece ogni volta si lascia scoprire incredibilmente e superbamente reinventato, ed anche qui ci regala una mostra-sorpresa del tutto nuova, magnetica e soggiogante, all'Ara Pacis.

E bisognerà ammettere che questi nuovi olii (pregni di terre sorvolate e di guance trafficate da umana sofferenza), mappe smarcate per sempre dalla pur degnissima matrice originaria, che è quella del disegno dettagliato e scritto, hanno raggiunto ormai un’autonomia cromatica di così adulta sprezzatura, che ci regala il fascino assoluto e rapinoso della pura pittura di materia: con quelle ciglia-cespuglio, arrugginite d’aranci e quelle graffiature d'azzurri malati, cementati nello smalto d'un vedere vissuto. 

Ed è felicissimo anche il titolo di «Lineamenti», che unisce indissolubilmente i due «volti» di Pericoli, maestro nello scavare entro la genealogia parallela e superficiale di questi terreni interiori. D’Amico avvicina convincentemente questo lieto incontro, con l’impatto avuto al cospetto dei sulfurei ritratti di Artaud, Ponge, Michaux, azzannati da Dubuffet, che anche lui amava «trascorrere una buona villeggiatura nei volti» degli amici: «farci passeggiate e viaggi». 

Ma se il santone Art Brut accecava di terra e di detriti le amate fisionomie, Pericoli ha raggiunto una levità quasi orientale, ove i tratti, pur infallibili, dei caratteri raccontati, s’incamminano verso la spiaggia dell’ineffabile e dell’indistinto: ai confini sfuggenti della fragile intrusione psicologica. I tratti lievemente induriti di Magris, Pollini perduto in una sua cantabilità interiore, gli occhialetti ridenti di Botta e l’ineffabile sorriso di Calasso, come il gatto del Cheshire di Lewis Carrol: che, svanendo, non ci lascia che il ciuffo nomade del ridere nicciano. E su tutti l’idolatrato Beckett, con quella magnifica carnagione di tweed, tramata di rughe e disincanto. 

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

sabato 11 settembre 2010

Dipingo i muri d’Italia con le mani


«Fra prostitute e trattorie ho affrescato l’antico spazio milanese degli Sforza. Poi una pieve nel Barolo. Il prezzo? Una bottiglia al giorno per tutta la vita»

Ridare i muri ai pittori. David Tremlett, grande artista inglese, ha ricoperto di forme geometriche stese con le mani la stazione Rione Alto della Metropolitana di Napoli e l’antica Zecca di via santa Marta a Milano, la cappella dei carcerati a Palazzo Re Enzo a Bologna e con Sol Le Witt la pieve di La Morra, sulle Langhe, tra le vigne del barolo. Ora ha affrescato alla maniera dei pittori rinascimentali il forte di Bard, in Valle d’Aosta, un’ora di autostrada da Milano, (di cui non resterà, purtroppo, che la documentazione come spesso accade per i suoi interventi) e la parete di una villa palladiana, Villa Pisani Bonetti, a Bagnolo, dove lo incontro. La sua idea dell’Italia è lontana dai luoghi comuni. Per Tremlett l’Italia è l’altrove, il Paese cui lui, esperto viaggiatore, non riesce a rinunciare: «Sono innamorato dell’Italia, una terra dolce, di suoni e di colori, dove Giotto e Piero della Francesca hanno dipinto i muri più straordinari della storia. Dell’Italia amo il paesaggio e le persone. Come una passione di cui non riesci a liberarti. O una famiglia che non vuoi perdere. E poi molta della mia arte è nata qui». A Shelley e a Turner forse era successa la stessa cosa, una sorta di rapimento. Che per Tremlett si fa meditazione dell’architettura e del paesaggio. «Quando Bruno Ceretto mi mostrò la cappella a La Morra, era semidistrutta ed era usata come ricovero attrezzi. Non volevo affrescarla tutta da solo come le sale del castello Faletti di Barolo, e così chiesi a Sol Le Witt di condividere il progetto. Lui era un maestro nella pittura in esterno, io volevo amplificare lo spazio dentro quel piccolo luogo un tempo dedicato alla preghiera; i vetri delle finestre li feci realizzare a Murano, le vesti per i preti da Ottavio e Rosita Missoni. 

Lavorammo sei mesi. L’inaugurazione fu suggestiva. Il compenso pattuito con Ceretto era una promessa: una bottiglia di Barolo al giorno per il resto della vita. Ora però ha qualche anno di ritardo...». Anche il più recente dei progetti cui Tremlett sta lavorando è legato alla terra, ma anche all’idea di energia. Nell’azienda Locatelli di Castelbosco, vicino a Piacenza, Tremlett non s’è accontentato di pareti e soffitti, ma ha voluto misurarsi con lo spazio esterno: «È un luogo del futuro, vi lavorano persone di ogni nazionalità e il letame delle 1.500 mucche è trasformato in energia elettrica». Con i committenti Tremlett ha un rapporto che ricorda quello di epoche passate. Inevitabilmente il pittore finisce per costruire una storia. Pubblica o privata. Come quella a casa di Giovanna e Federico Enriques, ispirata a un’incisione settecentesca che David ha riprodotto in un pavimento di legno con forme geometriche circolari, metafora della forza e dell’unicità dell’amore coniugale.
Tremlett, però, è soprattutto un nomade della contemporaneità, il viaggio per lui è alla base della vita e dell’arte, «è una sfida, un segno di indipendenza ». Nel 1971 ha girato il mondo con una piccola cassetta di pastelli, taccuini da disegno, macchina fotografica e del suo cammino verso l’Australia in autostop ha fatto un’opera d’arte oggi alla fondazione Henry Moore di Leeds: «Non avevo idea di quanto fosse lontano l’Australia, tanto ero ingenuo. Una gallerista di Londra mi finanziava: cento sterline per otto mesi a piedi. Allora non c’erano voli diretti. Io dovevo spedire cartoline dei luoghi in cui passavo come facevano altri della mia generazione. Oggi non esistono quasi più le cassette della posta...». In realtà quel viaggio non è solo arte. Tremlett vuole ritrovare i genitori partiti per l’Australia sei anni prima e di cui non ha più notizie. «Mio padre aveva studiato geologia, ma faceva il contadino nella sua fattoria nel Nord della Cornovaglia, dove sono nato. A 55 anni era stanco di quella vita e con mia madre, di dieci anni più giovane, decisero di andarsene. Aspettavano solo che io trovassi la mia strada e cercavano di convincermi ad arruolarmi in marina. Mio fratello, invece, ancora adolescente s’era già imbarcato per l’Australia. Mi sono ritrovato costretto all’indipendenza, ma era un’occasione di crescita non di dolore: volevo essere libero a tutti i costi. Una volta adulto, dopo la morte di mio padre, per molto tempo ho trascorso da mia madre una settimana all’anno: le sedevo accanto sul divano e insieme guardavamo la tv senza parlare. Ho sempre provato rispetto per loro, ma non il senso della famiglia che avete voi italiani».
David racconta il suo primo periodo a Londra nello studio-garage, dove aggiustava vecchi taxi. Il grasso per gli ingranaggi lo usa ancora oggi nei suoi wall-drawing (disegni sul muro) più audaci, con l’impronta dei polpastrelli a dare ritmo a quel materiale grezzo, plasmato come fosse oro. «Ero naïf. Volevo essere considerato un artista e mi mettevo in mostra. Se avessi ascoltato mio padre o i professori della Falmouth Art School, non sarei qua. Invece in poco tempo e con sole borse di studio arrivai alla Royal College of Art. Ma non volevo essere uno studente. Trovai uno studio a sud di Londra, dove vivevano Hamish Fulton e la coppia Gilbert&George, che comprava le mie opere per sostenermi. Furono loro i testimoni di nozze al mio primo matrimonio e fu divertente quando firmarono in due davanti al sindaco come fossero un’unica persona. Sapevamo d’essere diversi. Nella vita e nell’arte. Con loro e con Fulton andavamo fino a Düsseldorf per vedere le opere di Joseph Beuys, un innovatore. L’arte per noi non era solo fare oggetti».
Seguiranno altri viaggi in Africa, in Sud America, in Alaska, a contatto con le popolazioni locali, i colori, le forme e i suoni della loro lingua. Tremlett ha lasciato tutto quanto possiede nel baule di una macchina parcheggiata davanti a casa di amici. Al suo rientro, carico di fogli e fotografie, trova il direttore del dipartimento pittura del MoMA che lo cerca per una mostra: «Allora vivevo nel cottage di un maneggio, dove mi occupavo dei cavalli. L’avevo arredato con mobili di fortuna trovati in una discarica. In seguito la Waddington Gallery mi finanziò uno studio, e Marilena Bonomo mi invitò in Italia. Da lei c’erano tutti gli artisti internazionali, Le Witt, Mel Bochner, Alighiero Boetti. Non mi aspettavo di trovare un paesaggio così suggestivo nel Sud dell’Italia: finalmente arrivavo in un posto caldo e affettuoso. Poi incontrai Massimo Valsecchi, un’amicizia che dura nel tempo. Lui mi ha insegnato cos’è la qualità e come ottenerne molta con poco. Un’arte. Nel 1976 via Santa Marta nel cuore antico di Milano, dove c’è la sua galleria, era una strada autentica, dolce e vecchia. Da un lato l’hotel con le prostitute attempate, dall’altro la Trattoria milanese. Lì dipinsi lo spazio dove gli Sforza un tempo coniavano monete. Gli ocra e i marroni sono ormai consumati e Massimo li guarda invecchiare come fossero una bottiglia di buon vino».
A Milano Tremlett è legato anche per un fatto di cronaca che è divenuto storia. Era il ’93, l’anno della bomba al Pac, dove lui aveva una mostra. «Una parte del grande wall-drawingandò distrutto nell’esplosione. Maurizio Cattelan prese i resti, li mise in un sacco e li espose a Londra nella Galleria di Laure Genillard, la mia seconda moglie». «Lullaby» è il titolo dell’opera di Cattelan che ora è al MAXXI di Roma. «Ma Maurizio, Jeff Koons, Damien Hirst oggi sono soprattutto bravi self promoter — dice David Tremlett —. Ora la gente non ha idea dell’arte e della sua storia, nemmeno i collezionisti. L’arte è troppo vicina alla moda, espressione di un mondo ricco e autoreferenziale. Non c’è più sfida intellettuale o filosofica». Dell’Italia in crisi non è deluso; piuttosto, disorientato. «Per gli inglesi la politica è qualcosa di cui ci si deve fidare; per questo non amano la vanità negli affari pubblici, mentre l’adorano per le star del cinema. Berlusconi è un uomo troppo vanitoso, mi chiedo perché gli italiani lo votino. D’altra parte anche i laburisti vanno verso destra, e al governo c’è il conservatore Cameron: la sinistra è debole in tutta Europa. Del resto, anch’io leggo l’"Economist". Il futuro appartiene alla gioventù cinese e indiana, capace di sacrifici duri come quelli dei nostri nonni».
FONTE: Rachele Ferrario (corriere.it)