mercoledì 27 ottobre 2010

Osvaldo Licini, l'angelo ribelle sulla via dell'astrazione

Alla Gam di Torino una retrospettiva ripercorre rabbie e visioni del cosmopolita pittore marchigiano


Telegramma inviato da Licini come nel vuoto, nel 1941 «Impossibile venire, sarò presente in sogno. Ti autorizzo a firmare per me». Ci si domanda come avrebbe reagito, il dolce-bizzoso pittore, magari filtrato in groppa a un Angelo Ribelle o al Cavaliere di Münchhausen (che s’acciuffa e si solleva per la sua parrucca) di fronte a questo coraggioso allestimento «come precario». Che lo ghiaccia in un bianco primario e nudo, un po’ desertico-eremitico, e va benissimo (le sue opere affiorano come sassi aguzzi nel Cocteau dell’Angelo Hurtebise, avvolti in una neve puritana e di grado zero, che cancella le pretenzioni degli «ismi» manualistici e le saccenterie della critica), ma anche un poco infermieral-chirurgico. A spiegare anche il radicale lavoro di bisturi del curatore Eccher, affiancato da un regale parterre di liciniani comprovati, da Zeno Birolli (che cura anche l’importante sacello documentale) a Caramel, da D’Amico a Riccardo Passoni, erede della mostra curata dal padre, alla Gam, nel decennale della morte del ’58. Via dunque la cavalcata cronologica, via il senso intimistico dell’esporre, protetto dai siparietti sapienti, vie le premesse storiche d’un pur interessante e creativo periodo figurativo («relegato» volutamente nel sancta sanctorum, conclusivo, dei documenti). Via soprattutto i dubbiosi momenti, le diteggiature nodali di passaggio epocale (anche se tutto per Licini era dubbio e ripensamento cartesiano - nel senso anche di ripresa continua delle sue opere più nevralgiche: perennemente aperte). 

Nella stanza centrale del primo piano della Gam, completamente sventrata e neon-snudata di luce zenitale, l’allestimento di Rino Simonetti ricorda l’opera-chiave di Beuys Fine del XX secolo: non sai se la mostra sia ancora in via di allestimento o già di smontaggio. Ma pur nell’esattezza calcolata e geometrica delle tele, che si rispondono guerrescamente, si respira comunque questo clima di precarietà aleatoria, sottolineata anche da quelle pareti mobili, che non sono pareti, ma retri di grandi tele, appoggiate in bilico, che fan molto atmosfera di studio: di atelier perenne. Come penetrando dentro la vita schiva dello stilita di Monte Vidon Corrado. E probabilmente Licini avrebbe protestato il termine stesso, quasi crociano, di «Capolavori», lui che scriveva, agli amici ancora inconosciuti della Galleria del Milione, ma «fratelli in spirito» dell’avventura astrattista: «E poi vi avviso, i miei capolavori sono ancora tutti da fare, ne tengo più d’uno in cantiere, ma non sono ancora pronti per scendere in mare». 
Accettiamo dunque quest’immagine del cantiere navale prima d’ogni varo ufficiale, quest’aria di provvisorietà consustanziale, e godiamoci quest’atmosfera libera, sfondata, in cui le tele possono espirare sfrontatamente il loro ossigeno d’alta quota mentale (talvolta hai davvero l’impressione che nella loro craquelure screpolata, queste superfici celesti, astrali, ansimino ancora e ridacchino, blasfeme, come poggioli scollacciati di Amalassunte postribolari, complice l’amato Baudelaire). 

O non era lui a dire, in rivalsa ai realisti engagés, che lo accusavano di decorativismo e di purismo evasivo: «A che cosa serve un quadro, se non a rallegrare una parete?». Certamente, ma sempre dalla parte di un’allegria di naufragio, di una «gaia» scienza, succhiata dal suo amato Nietzsche (ma qui si deduce, nelle casse d’imballaggio per i quadri, trasformate in vetrine preziose, quanto leggesse anche Giordano Bruno e il Feuerbach sul Cristianesimo, Kafka come Bacchelli, Marinetti insieme a Soffici, Mallarmé come Gordon Craig: il rivoluzionatore principe del teatro, il nullificatore, insieme ad Appia, degli orpelli, dei fantasmi di scena). E perfino un folle librino medico su «Un grande allucinato dell’udito: Martin Lutero»! Sì, a ben vedere, c’è qualcosa sempre di visionario e di luterano (sbattezzato) in lui, quasi alla soglia del totale azzeramento, dell’iconoclastia pura: via l’immagine! lasciamo solo, sulla lavagnetta del morboso piacere cerebrale, i segni mentali e diagrammati di un sogno che non è onirico, e non proviene dalle trippe bretoniane dell’inconscio («Il surrealismo a modo mio») ma dai capricci (d’un vegliardo, alla Barilli: Bruno, l’olandese volante, non Renato!) di una ragione immaginosa e ferocemente allucinata. «Dicono i preti che adesso io faccio della pittura cerebrale. Che cosa dovremmo fare, della pittura intestinale?». Eppure, in questa ascesa verso la via regia e senza remissione dell’astrazione più radicale (vicina soprattutto alla fantasia iningabbiabile di un Soldati o Magnelli, certo non ai rigori della squadretta dei geometri di Como, Rho e Radice) qualche resto fecale, sottotraccia, della sua vecchia pittura morandiana e leopardiana permane, invincibile, in apnea. 

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

mercoledì 20 ottobre 2010

Colosseo senza segreti ora la visita è integrale


Dal 19 ottobre due aperture storiche per l'Anfiteatro Flavio. Gli "ipogei" da sempre esclusi dalla visita e il "terzo ordine" delle arcate chiuso da quarant'anni. Il "terzo ordine" fa salire i visitatori a 33 metri di altezza, a ridosso dell'attico che è la parte antica più alta sopravvissuta. Con panorama indimenticabile


Il Colosseo tutto visitabile, da cima a fondo, attraversando anche la "Porta dei morti", con l'apertura al pubblico di zone finora escluse. E per cima si intende proprio il livello più alto, il "terzo ordine" delle arcate, che i visitatori raggiungono a 33 metri di altezza, con la visione all'interno di tutto il monumento (un ovale di 188 per 156 metri) e all'esterno il panorama di Roma e dei monumenti più belli . Sono il "Belvedere" e la terrazza ai piedi dell'attico, l'anello più alto sopravvissuto dell'Anfiteatro Flavio, quello sul lato del colle Oppio, che ancora resiste a 53 metri di altezza. Fu costruito durante l'impero di Domiziano (81-96 dopo Cristo). E per fondo si intende il più basso pavimento solido del Colosseo, quello degli "ipogei", i corridoi scoperchiati che occupano tutto lo spazio dell'arena e che i visitatori hanno davanti agli occhi appena entrati nel monumento. Qui centinaia di uomini seminudi lavoravano come in miniera perché l'Anfiteatro Flavio, la più colossale e complessa "macchina" per spettacoli dell'impero romano (e quindi del mondo), non si fermasse mai, non deludesse le decine di migliaia di spettatori (45 mila, ma si parla anche di 73 mila). Manovrando piattaforme, ascensori, montacarichi per scaricare sull'arena uomini e bestie, scene dimiti e vittorie romane, attori. Gladiatori per i duelli mortali, uomini contro bestie feroci nelle "venationes" e condannati a morte nella "damnatio ad bestias". La parte visitabile degli "ipogei" è quella coperta da una piattaforma lignea per circa un terzo dell'arena, usata dall'estate 2000 per drammi antichi e concerti. 

E poiché il prodotto più diffuso degli spettacoli nell'anfiteatro era la morte, i cadaveri andavano sgomberati al più presto e c'era per questo la "Porta Libitinaria" collegata al piano dell'arena e agli "ipogei". Quest'ultimo corridoio, descritto come "basso e oscuro", degno passaggio al regno degli inferi, è stato interrotto e chiuso da una fogna ottocentesca. Il nome della porta si piega col fatto che libitinari erano a Roma gli impresari  di pompe funebri e Libitina era la divinità della sepoltura. In epoca moderna si esce più tranquillamente verso lo "Sperone Stern" , l'intervento di consolidamento in mattoni delle arcate esterne dell'anfiteatro realizzato da Raffaele Stern fra il 1805 e il 1807. In antico un passaggio sotterraneo collegava gli "ipogei" al "Ludus magnus", la caserma e palestra dei gladiatori di cui sopravvivono vaste strutture sul lato di San Giovanni.

L'apertura al pubblico del "terzo ordine", degli "ipogei e della "Porta Libitinaria", è il maggiore avvenimento che coinvolge il Colosseo (in attesa del futuro restauro completo) e il risultato più significativo finora ottenuto da Roberto Cecchi quale commissario delegato per gli interventi urgenti (manutenzione straordinaria e consolidamento) nelle aree archeologiche di Roma e Ostia antica. Già sono state aperte al pubblico zone da sempre proibite come la Vigna Barberini e le Arcate Severiane sul Palatino. A fine novembre sarà aperta la parte dell'Appia antica corrispondente alla villa dei Quintili, e a fine dicembre  il tempio di Venere e Roma che è il dirimpettaio del Colosseo, e la "Casa delle Vestali" nel Foro. Una struttura, quella di Cecchi, ora diventato anche segretario generale del ministero Beni e attività culturali, che alla costituzione nel maggio 2009 aveva sollevato polemiche e molti timori di svuotamento delle soprintendenze. La sintonia e la collaborazione commissario-soprintendenza di Roma (Angelo Bottini e Giuseppe Proietti), si sono invece confermate indispensabili per i risultati. 



Per il restauro e consolidamento della parete verticale dell'attico che si sviluppa per 15 metri di altezza e 150 di lunghezza (e aveva risentito del terremoto dell'Aquila), il commissario ha impegnato 400 mila euro e 480 mila per l'adeguamento funzionale e la messa in sicurezza per l'apertura al pubblico del "terzo ordine". L'apertura degli ipogei e relativi restauri hanno richiesto mezzo milione di euro. Nei tre interventi, responsabile scientifico è stata Rossella Rea (responsabile del Colosseo), responsabile del procedimento e progettista l'architetto Piero Meogrossi con l'architetto Barbara Nazzaro, tutti della soprintendenza. La doppia apertura è anche la prima uscita ufficiale di Anna Maria Sgubini Moretti quale nuovo soprintendente per i beni archeologici di Roma "ad  interim" (almeno fino a dicembre), mentre conserva la soprintendenza dell'Etruria.
Per il "terzo ordine" i visitatori seguono all'entrata del Colosseo la scala attuale che porta al "secondo ordine" e percorrono l'ambulacro coperto lungo 150-200 metri che si trova fra i due livelli. L'ambulacro, una parte rimasta intatta del Colosseo ancora con gli intonaci e i lucernai originali, è la sede del futuro museo dell'anfiteatro. Qui ritroveremo gli oggetti più vari. Resti dei pranzi cucinati sulle gradinate dagli spettatori, nocciuoli della frutta, dadi, arnesi per cucire o rifarsi il trucco, "pani" rettangolari di piombo con doppio foro per le funi di manovra negli "ipogei".

Dal "Belvedere" e da undici arcate del "terzo ordine" si ha una doppia vista indimenticabile, sull'interno dell'arena e sull'esterno, la Roma antica e moderna. L'Arco di Costantino, lo scavo della "Meta Sudans" (la fontana in cui i gladiatori lavavano le armi dal sangue dei combattimenti), il tempio di Venere e Roma, la basilica di Santa Francesca Romana e la basilica di Massenzio, l'arco di Tito, il Palatino, il Foro fino alla mole del Campidoglio. E poi il rettifilo dei Fori Imperiali, il bianco del Vittoriano, lo schieramento delle cupole. Un panorama che va dall'Eur al Gianicolo, a Monte Mario. Da queste arcate i Vigili del Fuoco fanno scendere l'immenso Tricolore che fa da sfondo alla sfilata del "2 giugno". 

Dalla punta del "Belvedere", proprio "sopra" l'arco di Costantino, i visitatori si possono muovere  su di una terrazza larga una decina di metri e lunga una ottantina con il nuovo pavimento in "opus spicatum". Sul "terzo ordine" erano i posti del popolo, del"Maemianum secundum summum", una delle suddivisioni dei posti per gli spettacoli che in quanto pubblici era gratuiti, ma disciplinati da un rigido sistema secondo la posizione sociale, introdotto da Augusto che da allora ha assicurato un regolare "riempimento e svuotamento" delle tribune. Tutti sapevano il percorso da fare, dagli archi o fornici di ingresso alle ripide scale, ai numeri dei posti ai quali si accedeva attraverso 160 vomitori. Augusto, come riferisce Svetonio, stabilì fra l'altro che "nessuno del volgo malvestito sedesse nel mezzo della cavea". Quanto alle donne vietò di assistere ai duelli fra gladiatori "se non dai gradini più alti".  

FONTE: Goffredo Silvestri (repubblica.it)

venerdì 15 ottobre 2010

I paesaggi di Morandi ninnoli del cuore

Sorpresa: il maestro bolognese non dipingeva solo bottiglie. Ad Alba una mostra ne rivela la grandezza en plein air


A dimostrare la debolezza e l’inconsistenza delle valutazioni del mercato dell’arte, che troppi ritengono decisive, quasi un «vangelo» («se un'opera vale così tanto a un'asta, non può che essere un capolavoro») giunge questa mostra incantevole di soli paesaggi di Giorgio Morandi che si apre oggi ad Alba. Oltre ai tanti meriti critici, e di efficacia e prestigio di scelta, si guadagna una ulteriore, rilevante medaglia. Nel provare quanto è stolta la convinzione del mercato, che Morandi sia un pittore grandissimo, soltanto nella sua sinfonia variata di bottiglie, scatoline e botticini; mentre sarebbe molto meno «valido» e seducente nei suoi paesaggi, o nei lirici mazzettini di fiori. L’esposizione alla Fondazione Ferrero di Alba, riservata finalmente ai soli paesaggi (l’idea fu già di Briganti) dimostra infatti che se anche il solitario riottoso di via Fondazza non fosse inciampato in quel cullato e premiato Leitmotiv delle bottiglie (l’ha reso quasi proverbiale, e talvolta persino inviso), sarebbe stato comunque un grandissimo pittore. «Di paesi», piuttosto che di paesaggi: termine che lui riteneva già fin troppo ambizioso e pomposo, e rischiosamente ampio, gravato di ipoteche storiche. Da grande conoscitore dell’antico (degli incanti di Giotto e dei Lorenzetti, trascurando un poco Domenichino), preferiva citare solo quattro nomi, via dalla mitologia: «Corot, Courbet, Fattori e Cézanne». Disposti proprio così, in riga. Anche se lui preferiva smussare gli imprinting e dirli «suoi» e basta. 

In una celebre lettera, dal profilo autobiografico, confessa, a proposito di alcuni scorci tutti-Morandi (talvolta il suo en plein air avviene dalla finestra protettiva dello studio: una chiostra in basso di stenti vasi, come denti cariati): «Non sappiamo perché certe cose ci hanno così vivamente toccato e perché siamo stati indifferenti ad altre. Certo che, riguardo a questi (...) paesaggi, quello del 1940, esposto alla Biennale e di altri degli anni successivi... li ritengo miei». Tutto, qui, con modestia programmatica e quasi punitiva: ascoltando il suo sguardo lirico ed impolverato. Uno sguardo che si concentra a cannocchiale sul poco di mondo concessogli dalla sua stanzialità anche estiva tra le colline «inamene» di Grizzana: chiude progressivamente l’obiettivo e potenzia l’essenzialità tonale delle minime cose, come di pura, sbiancata poesia. Ed è ancora Longhi, a dire le cose più vere, evocando «ricordanze tonali» degne di Proust: «Infatti la lezione intima di Morandi è il chiarimento immediato della sua riduzione del soggetto, che gira al minimo; l’abolizione, in ogni caso, del soggetto invadente che parte in quarta e si divora l’opera e l’osservatore. Oggetti inutili, paesaggi inameni, fiori di stagione, sono pretesti più che sufficienti per esprimersi “in forma”; e non si esprime che il sentimento». Musicale. 

La mostra parte dai suoi primi anni metafisici, per giungere ad un’intelligente conclusione, quasi mistica, ove uno degli ultimi paesaggi, alle soglie dell’informale di Fautrier e De Stael, si specchia e dialoga con l’unica, dematerializzata Natura Morta di bottiglie in mostra (a testimoniare l’inesistenza del divario). Anche i paesaggi, in fondo, a guardare questa vera e vasta «panoramica» sono oggetti inutili, ninnoli del cuore. Ma esplosivi di poesia annebbiata e rappresa, come sassi di dolcezza incomunicata. Della stessa materia impaniata di riserbi ancora chardiniani («il muto squallore nel giorno di cenere», scrive Arcangeli) che Morandi, che si mesticava da solo i colori, scopre in una vecchia terra rossa ritrovata in un angolo di magazzino, che promette in dono anche al giottesco Carrà e che proviene appunto da Assisi: forse la stessa fonte di luce cromatica, usata per certi amati affreschi del Maestro Primo. 
L’inattuale Morandi non può che scomunicare l’innamorato Arcangeli, che troppo lo sospinge verso le inquietanti spiagge inamate del Moderno, cantando «il verde, friabile, incerto mormorio di alcuni» paesaggi dell’informale francese, e scoprendovi «una fattura altrettanto ardita, e più sapiente, e più modestamente ma altamente perduta nella materia delle cose, dei nebulosi affascinanti Fautrier del '28». Perdersi nelle cose, nelle materie: autentico naufragio leopardiano. In questo, la visione intellettuale, cerebrale quasi ed insoddisfatta, scheletrica di Cézanne, lascia spazio al respiro libero, incantato, sussurrato, ove la «compattezza metrica dell'insieme» vince «la fatica neocezanniana» (di tanti colleghi cubisteggianti del momento) come annota il rivale di Arcangeli, Cesare Brandi. Tutti questi nomi, a ricordare un’altra qualità della mostra, curata con amore da Cristina Bandera: tutte queste tele sono appartenute o si portano addosso il lucore di occhi amorosi e competenti di amici illustri, da Malaparte a Raimondi, da Casella a Magnani, da Vitali a Ragghianti. Uno, regalato da Antonio Baldini, al figlio Gabriele, passato alla moglie Natalia Ginzburg ed ammirato dal poeta Eliot, probabilmente ha nutrito l’occhio del giovane intenditore Carlo Ginzburg.

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)

mercoledì 6 ottobre 2010

Berruti, l'infanzia una sola moltitudine

Alle Stelline approdano disegni e installazioni


Un universo popolato dall’infanzia, fanciulli e bimbette che animano disegni, formelle, terracotte, installazioni, sculture, minuscoli busti in ceramica (ben 400) disposti ai piedi della grande juta l’Abbraccio 2010, dipinta a olio e affresco. Ancora: questa folla sorridente, ingenua, talora inespressiva prende corpo nelle due sculture in cemento dai visi carichi di meraviglia che guardano in alto dove scaturisce la luce. 

È questo il mondo antico e nuovo di Valerio Berruti, l’artista piemontese che oscilla fra diverse espressioni artistiche, così come sa catturare le diverse lezioni dei grandi maestri del passato, dalla scultura al disegno. Ricrea così un’autentica moltitudine di giovani individui in serie, pensosi, quasi monocromi, ora testimoni o vittime d’un mondo in continuo mutare. 

Talora sono inermi protagonisti del dolore nei 14 bassorilievi dai diversi colori delle stazioni di Via Crucis 2010. Curata da Olga Gambari, con catalogo Allemandi, la mostra schiera in campo una ventina di opere dalle diverse dimensioni, compresi i nove delicati, teneri pastelli a olio su carta che svelano la dolcezza dell’abbraccio. 

Tema che era già al centro del video esposto da Berruti nel discusso Padiglione italiano firmato da Luca Beatrice all’ultima Biennale di Venezia. «Una Sola Moltitudine» è il titolo giusto di questa personale ricavato dal grande Pessoa, che quanto a moltiplicazioni di identità in sé era un vero maestro; anche i minuscoli abitanti del pianeta Berruti si riproducono quasi all’infinito, ciascuno conservando la propria autentica, magica, primigenia individualità. 

FONTE: VALERIO BERRUTI (lastampa.it)



martedì 5 ottobre 2010

L'ora dei vigilantes laureati nuovi custodi dei musei italiani


Archeologi e storici dell'arte il 90% degli assunti. Superati i candidati diplomati. Allarme dei sindacati: siamo in carenza di personale


SONO  i "custodi laureati", ossia almeno il 90% dei 397 neo assistenti all'accoglienza che, dopo una selezione durissima (159mila le domande arrivate nel 2008), il ministero Beni culturali ha appena assunto per cercare di tappare la falla degli organici nei siti archeologici, nei musei, negli archivi, nelle biblioteche. Peccato che, al primo concorso interno, le sale si svuoteranno di nuovo: perché i "vigilantes-dottori" cercheranno di fare una progressione di carriera verso il posto per cui hanno studiato anche dieci anni. Con buona pace dei semplici diplomati, che si sono visti superare al concorso dai candidati super ferrati.

"Ho partecipato anche al bando per archeologo, in Lombardia, e sono la seconda idonea - racconta Martina Almonte, 34 anni, dottorato a Tubinga, in Germania - intanto ho vinto quello da custode e lavoro con altri tre neoassunti al Museo Pigorini di Roma, ma spero che non mi facciano solo controllare il pubblico. Lo stipendio? Circa 1300 euro al mese ma con l'indennità dei turni alla fine è vicino a quello di un funzionario, circa 1500 mensili". Dice Simona Contardi, 33 anni, dottoranda, una degli 8 nuovi "archeologi custodi" in Piemonte: "Attenzione, il nostro lavoro prevede anche attività di accoglienza e comunicazione". La possibilità di lavorare sul materiale che si deve controllare è, in realtà, a discrezione dei soprintendenti mancando una direttiva chiara da Roma. I vecchi custodi (l'età media è 58 anni) non vedono di buon occhio i giovani colleghi "secchioni". E anche i direttori chiedono spesso di rispettare le consegne: turni in sala e sicurezza, tanto che i neoassunti fanno anche un corso per il pronto intervento in caso di incendio.

A palazzo Barberini, a Roma, ne sono appena arrivati cinque, due però sono andate in maternità e non sono state sostituite. Intanto la Galleria nazionale da sabato ha aumentato le sale aperte: da 10 a 24. E la coperta è corta un'altra volta. "Ci sarebbe bisogno di più personale, certo, ed è anzi una fortuna che ci abbiano fatto bandire questa nuova gara per 397 posti" spiega Pietro Pasquali, funzionario dell'ufficio concorsi del ministero. Ma di quanti custodi c'è bisogno? Nelle strutture statali "oggi sono 8.917 - spiega Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil Beni culturali - ma ne servirebbero almeno 12mila, una stima fatta peraltro nel 1999 quando musei e siti aperti erano molti di meno". L'emorragia è continua. E le nuove assunzioni, una goccia nel mare. "Entro dicembre saranno 800 i custodi andati in pensione quest'anno" continua Cerasoli. Che pensa "alla difficoltà dei semplici diplomati nell'affrontare quiz ed esami duri ma anche ai laureati che, a causa della disoccupazione, si riversano su tutti i posti possibili". Il sindacalista propone: "Il ministro vari un piano per l'utilizzo straordinario del servizio civile nazionale: ne basterebbero duemila per garantire l'apertura dei musei".

Per guadagnare 19mila 372 euro lordi l'anno, la carica dei 397 ha dovuto superare un pre-esame con 100 quiz di cultura generale, uno scritto con 12 domande, anche di diritto, e una prova orale legata alla branca prescelta (ad esempio, archeologia), ma anche di inglese e informatica. "Nel Lazio - racconta una che ce l'ha fatta, Nadia, 29 anni, laureata di Napoli - ci siamo sentiti chiedere cosa è raffigurato nella tomba del Barone di Tarquinia o gli influssi dell'arte micenea in riva al Tevere". Quasi nessuno ha saputo rispondere.  

FONTE: Carlo Alberto BUCCI (repubblica.it)

venerdì 1 ottobre 2010

ARTE: I PROTAGONISTI

Intervista all’artista filandese Hannu Palosuo
mercoledì 29 aprile 2009 di Marco Ancora
Hannu Palosuo ha da poco concluso una importante mostra presso la Galleria De Crescenzo e Viesti che sembra segnare un passaggio fondamentale nella carriera dell´artista finlandese. Non a caso Palosuo sarà presente con i suoi lavori alla prossima edizione, la cinquantatreesima, della Biennale d’arte di Venezia. Naturalismo, contemplazione e meditazione, una spiritualità insorgente concentrata in dettagli bidimensionali e inquadrata a colori quasi monocromi indicano una precisa svolta verso la maturità.
d) Ti seguo da molti anni e ora vedo che la tua ricerca sta portandoti verso soluzioni nuove, basate su una maggiore e forse definitiva serenità artistica. Vedo anche un rinnovamento "magico": è l´approdo verso una nuova mistica?
r) Misticismo e la ricerca del “Io” costituiscono sicuramente una parte fondamentale del mio lavoro. Questa è forse la più grande eredità finlandese che porto dentro di me. Sono nato è cresciuto in un paese dove la natura è molto presente e dove sei costretto ad incontrare te stesso nel confronto con essa. Si dice che ogni finlandese abbia una foresta dentro di sé.
Credo che l’elemento nuovo nel mio lavoro sia il bisogno di una estrema semplificazione. Sento il bisogno di eliminare tutto quello che è di troppo, di isolare ogni singolo elemento e capire bene la sensazione che il lavoro possa trasmettere allo spettatore. Sento sempre più la necessità di eliminare ogni traccia di racconto dalle mie opere, trovare la più pura emozione, arrivare a considerare l’opera come il veicolo per trasmettere delle sensazioni tra l’opera e lo spettatore. E questo sicuramente porta ad un misticismo, all’avvicinarsi al “creatore” (e non parlo in senso cristiano-cattolico).
d) Ispirazione e non solo: quanto ti ha dato l´Italia, cosa hai preso dalla Finlandia, e poi come si legano e si risolvono le due "diversità"?
r) La mia formazione artistica è italiana, ho studiato all’Accademia delle Belle Arti di Roma. Sicuramente questo mi ha lasciato un grande bisogno di confrontarmi con la storia dell’arte e soprattutto con la storia sociale dell’arte. Purtroppo il grande peccato degli artisti finlandesi è spesso quello di pensare che il proprio “genio”nasca dal nulla, che sia senza precedenti.
d) Mi dici cosa funziona nei due paesi verso il singolo artista e verso l´arte in generale? Quali sono i fattori di spinta e quali invece quelli da rimarcare negativamente in termini di internazionalità e provincialismo?
r) La Finlandia è sempre stata molto generosa con gli artisti in quanto a sovvenzioni statali, per legislazione (p.e. IVA 8%, pensioni, investimenti verso le accademie), con i musei, con le fondazioni che intendano comprare, etc. Questa è la grande forza e allo stesso momento il più grande impedimento dell’arte finlandese. Quando lo stato ti supporta e ti garantisce la sopravvivenza, è ovviamente molto più facile concentrarsi sul lavoro, creare opere di altissimo livello. Ma nello stesso momento la sicurezza toglie spinta ed ispirazione, non esci più dal tuo giro rassicurante.
E ovviamente tutto il mondo è paese. Così anche in Finlandia i soldi pubblici nell’arte hanno creato delle vere e proprie, potentissime “massonerie”, delle “mafie” d’arte, o sei con noi o sei contro di noi. Spesso per le sovvenzioni le tue amicizie contano molto più della propria bravura artistica. Quasi sempre gli artisti finlandesi che hanno fatto delle vere carriere internazionali vengono fuori dalla sistema, non hanno goduto delle sovvenzioni …
Al contrario l’Italia, dove l’arte non è per niente supportata (e sopportata), dove praticamente è ostacolata sotto ogni possibile forma, nascono degli artisti che riescono a farcela. Il più grande insegnamento che l’Italia mi ha dato è quello di aver imparato ad analizzare il proprio lavoro, credere nella propria opinione e nella propria strada (che percorri da solo) e lottare in una realtà senza regole.
d) Un ultimo consiglio al "Paese Italia", e senza peli sulla lingua....
r) Secondo me il più grave difetto del sistema dell’arte italiana è lo stesso che colpisce tutti i livelli della società italiana, cioè “il bamboccionismo”. L’ Italia è il paese dei piagnucoloni. Sicuramente la realtà attuale è molto difficile. In ogni caso sul territorio ci sono delle ottime gallerie private, che con grandi sacrifici portano avanti il loro ottimo lavoro. Nessuno (neanche gli artisti) parlano di loro. Faticosamente si stanno costruendo nuovi spazi espositivi pubblici, dove s’incontrano solo artisti stranieri e turisti. Dopo le pubbliche relazioni delle inaugurazioni, gli artisti italiani rimangono a casa a lamentarsi, invece che farsi una formazione. Mentre in altri paesi esistono per esempio dei sindacati di artisti molto attivi, in Italia nessuno è disposto a portare avanti un discorso. Tutti lamentano la mancanza delle sovvenzioni, nessuno considera che per averli devi prima aprire la partita IVA e dichiarare la tue vendite. Tutti vorrebbero tutto e subito e possibilmente offerto dalla mamma, ma nessuno è realmente pronto a lavorare per ottenerlo. Tutti siamo d’accordo che senza sapere le lingue è difficile lavorare fuori d’Italia. Ma chi è pronto a frequentare un corso serale per impararle? Usando la metafora dei bamboccioni, tutti preferiscono rimanere vivere da mamma, invece che fare il lavapiatti o altro per mantenere il proprio lavoro artistico INDIPENDENTE.
d) I tuoi progetti futuri?
r) Il progetto futuro più importante è la partecipazione al 53. Biennale di Venezia. In aprile inaugurerò un nuovo spazio espositivo, MART nella Repubblica di San Marino e c’è in progetto una tournée espositiva in Sud America per 2010.
Hannu Palosuo: cenni biografici.  Nato a Helsinki, in Finlandia, nel 1966; Ha studiato storia dell’arte all’Università “la Sapienza” di Roma e pittura all’Accademia delle Belle Arti di Roma.
Principali mostre: 53. Biennale di Venezia, Italia 2009; Museum of Finnish Contemporary Art, Tampere, Finland, 2008; Fondazione Pavia, Pavia, 2007; Istituto Iberoamericano de Finlandia, Madrid, Spagna, 2007; Museo Zorrilla, Montevideo, Uruguay, 2007; Heinola Art Museum, Heinola, Finlandia, 2006; Focal Point, Buenos Aires, Argentina, 2006; Herbergenmuseum, München, Germania, 2006; Sojoh University Gallery, Kumamoto, Giappone, 2005;
Principali collezioni pubbliche:  Fundacion Mundo Nuevo, Buenos Aires, Argentina; Helsinki City Art Museum, Helsinki, Finlandia; Heinola Art Museum, Heinola, Finlandia; Paulo Foundation, Helsinki, Finlandia; Museum of Finnish Contemporary Art, Tampere, Finlandia;Herbergenmuseum, München, Germania; Fondazione Valerio Riva, Venezia, Italia; National Gallery, Amman, Gioddania; Apotekets Konst Forening, Stockholm, Svezia; Museo Zorrilla, Montevideo, Uruguay.

Mostra di Angela Di Bari

    Segni nel tempo .   .   .   .   .   .   .   .   .     
                                                                    . Angela DI BARI   opere  2005-2010
                                                               . Mostra personale a cura di Micaela  MANDER
                                                          . Inaugurazione martedì 5 ottobre 2010 ore 19  
                                                     . Associazione culturale “IL LABORATORIO”  
                             . Via del Moro, 49 – ROMA (Trastevere)
                                                     . L’esposizione rimarrà aperta fino al 12 ottobre 2010                                                      
                        . Orario: tutti i giorni ore 18:00 – 23:00
.   .   .   .   .   .  Informazioni: 333 4661998 – mavioan@tin.it
                                                                                                                                       


Angela Di Bari ha dedicato gli ultimi cinque anni della sua vita alla pratica dell'incisione. Uno studio attento, appassionato, assiduo, l'ha portata a familiarizzare con le diverse tecniche che quest'affascinante arte mette a disposizione, imparando a padroneggiarle, e ad abbinarle a soggetti via via più personali.
Entrare in una mostra di Angela Di Bari significa perciò avvicinarsi al suo mondo, nel senso più intimo del termine: da un lato infatti ci si accosta a una personalità caparbia e tenace, che in poco tempo ha fatto propri i segreti di un antico mestiere, ancorché non facili e banali. Dall'altro, si entra nel suo immaginario, fatto di colori ma anche di forti contrasti chiaroscurali, dove favole e ambienti si alternano, restituendoci letture, brani di vita, esperienze.
Angela Di Bari si forma infatti come studiosa di lingue dell'Europa orientale, e questo spiega la scelta che viene qui presentata nella seconda parte della sala della presente mostra: la “magica” Praga informa col suo spirito anche fogli che proprio Praga non rappresentano, ma, pur riportandoci in Italia, evocano il senso di mistero che in genere viene associato alla città boema, la sua fumosità sfuggente, tra la creazione del Golem e la metamorfosi di Kafka. E quale soggetto migliore, dunque, per poter applicare l'acquatinta, la vernice molle, o per poter utilizzare una tavola di presspan invece del più comune zinco?
Ma l'attenzione verso il magico non esclude l'amore per il quotidiano, e i suoi oggetti: il visitatore entra innanzitutto in una sala le cui pareti iniziali sono dominate dai colori del bergamotto e delle foglie di platano, incontra il coperchio di una vecchia scatola portapipe, e gli oggetti di ogni cucina, bollitori, teiere, etc. Ma è un quotidiano che sfuma nella favola, come testimonia la bozza di copertina per Alice nel paese delle meraviglie. E che ancora confonde, passando dalla precisione maniacale del bulino, dal tratto deciso della puntasecca, alle sfumature dell'acquatinta.
E il colore compare pure, lo sottolineiamo, nella seconda parte della mostra, e sempre in relazione a cose: i libri, questa volta, forse l'oggetto amato per eccellenza dall'artista-studiosa, che in una parete presenta una selezione di ex libris da lei creati, per privati e per biblioteche. Biblioteche che ancora ci portano a est...
Angela Di Bari, insomma, rivela, circolarmente di foglio in foglio, di parete in parete, le sfaccettature di un'anima che osserva e riprende (vari i d'après che si è scelto di esporre), che ama temi quali la natura morta e il paesaggio, che adora la sua casa; ma l'anima di Angela Di Bari è anche nera, persa nei gorghi del mistero, e sensibile ai paesaggi invernali, difficili, freddi, che sono appena al di là da noi, a volte solo al di fuori di una finestra.
E la mostra svela pure il percorso di Angela Di Bari quale artista: in ogni parete si accostano soggetti ripresi e soggetti inventati, soggetti che si ispirano alla realtà, e visioni magiche e fantastiche, tecniche diverse, anni diversi. A voi cogliere continuità e differenze, suggestioni contenutistiche e formali che circolarmente ritornano, all'interno di una crescita continua e coerente.
Milano, estate 2010                                                                                                                Micaela Mander