venerdì 29 aprile 2011

Tra old America e antica Roma Cinecittà (finalmente) in mostra

Per la prima volta i mitici stabilimenti della capitale si aprono al pubblico: tra costumi, oggetti di scena, filmati, e il tour guidato su due set, tra cui quello di "Gangs of New York". Inaugurazione con Benigni e Verdone. Il presidente Luigi Abete: "Il prossimo progetto è un museo permanente del cinema. Altro che chiusura, gli studios sono privatizzati da anni..."


ROMA - Il set di Gangs of New York con le botteghe della vecchia Broadway. Quello, spettacolare, della fiction americana Rome, con la città più potente del mondo antico tutta ricostruita in vetroresina. Costumi di scena che hanno fatto epoca, da quelli di Liz Taylor e Richard Burton in Cleopatra alla recentissima veste da pontefice indossata da Michel Piccoli in Habemus Papam. Oggetti di ogni tipo, dalla statua a forma di delfino di Ben Hurall'equipaggiamento del Paziente inglese. Bozzetti di famosi scenografi, come quello del vascello di Dante Ferretti per Il Barone di Munchausen o lo schizzo della sala dell'oppio di C'era una volta in America. E  ancora tanti materiali foto e audio: immagini di scena, e soprattutto filmati. Tra cui spicca quello con una miscellanea di provini di attori diventati celebri: da Lucia Bosé a Riccardo Scamarcio, passando per Stefania Sandrelli.

E' fatta di cose così, di piccoli e grandi pezzi di memoria (e di attualità) della settima arte, la rassegna Cinecittà si mostra: aperta da oggi presso i celeberrimi studios di via Tuscolana, consente per la prima volta uno sguardo su uno dei luoghi mitici del nostro Paese. Un posto magico, amatissimo da grandi autori come Federico Fellini e Martin Scorsese. E anche da Roberto Benigni, che infatti è stato tra i protagonisti della grande inaugurazione vip di ieri sera.

L'eposizione, che resterà aperta fino al 30 novembre, permette in primo luogo al visitatore di girare liberamente nella parte iniziale dell'area, quattro ettari di giardini e di verde. Poi cominciano le parti espositive al chiuso. Nella palazzina presidenziale, in un corridoio coi pavimenti su cui scorrono le sequenze di film vecchi e nuovi, si ricostruiscono i vari mestieri del cinema. In due stanze ci sono i tanti reperti di sartoria: costumi di ogni epoca, dal saio di Sean Connery nel Nome della rosa a La passione di Cristo di Mel Gibson; cappelli di ogni foggia; capi unici prodotti dalle grandi sartorie del settore, come Tirelli e Peruzzi. Poi c'è la stanza dedicata alle scenografie: anche qui, oggetti di fogge ed epoche varie, e i bozzetti con le scenografie. Segue la sezione "Ciak si gira", che ricostruisce un set con ambientazione settecentesca: candele al posto dei lampadari, scrittorio, oggetti del periodo; e alla (finta) finestra un (finto) temprale. Alla Palazzina Fellini, invece, alcuni abiti creati non dai sarti cinematografici ma dagli stilisti: ad esempio l'abito bianco indossato da Audrey Hepburn in Guerra e pace, disegnato da Gattinoni. C'è pure una stola di Fendi (per Titus di Julie Taymor), un vestito nero delle sorelle Fontana (per Le amiche di Michelangelo Antonioni). Divertirà sicuramente il pubblico la sala dove assistiamo, sullo schermo, ai provini degli attori.

Oltre al versante espositivo, la visita prevede un tour all'aperto. Una navetta conduce i partecipanti su due set. Uno è il cosiddetto Broadway: costruito originariamente per la pellicola Concorrenza sleale, è stato reso celebre da Gangs of New York di Martin Scorsese. Poi tocca allo splendore della città antica "caput mundi", sul set di Rome: la piazza, i templi, il Senato, tutto ricostruito in vetroresina. C'è anche la parte della suburra, povera, cadente, anche questa perfettamente ricostruita. 

Questi i momenti clou della mostra. E ieri sera, per tagliare il nastro ufficialmente, grande inaugurazione alla presenza di tanti esponenti del mondo delle istituzioni e dello spettacolo. Circa mille gli invitati: i più attesi, Roberto Benigni e Carlo Verdone. A fare gli onori di casa il presidente degli Studios Luigi Abete, il direttore generale Lamberto Mancini, la curatrice dell'esposizione Elisabetta Briscolini, l'ideatore (nonché vicedirettore generale) Giuseppe Basso. 

"Accanto alla produzione di film ci interessa realizzare altri eventi culturali come questo - annuncia Abete, incontrando i cronisti sul set Broadway - speriamo di realizzare nel futuro un museo permanente del cinema. Negli ultimi mesi noi, che siamo una società privata (tra i soci ci sono imprenditori come Aurelio De Laurentiis e Diego Della Valle), siamo stati travolti da una bufera che non ci riguardava: hanno detto che stavamo per chiudere. Ma noi siamo un'altra cosa, rispetto alla società pubblica Cinecittà Luce. Siamo un'impresa privatizzata ben 13 anni fa: noi non chiediamo soldi allo Stato, glieli diamo sotto forma di affitto dell'area e di riqualificazione. La mostra che avete appena visto è la prova del nove che Cinecittà c'è. Ed è viva. Anche se tra i politici c'è chi la vorrebbe di nuovo statale". A riprova della vitalità del posto, nel prossimo futuro qui - oltre a tante fiction - si gireranno i film di Carlo Verdone, Bernardo Bertolucci e (se la trattativa in corso andrà a buon fine) Woody Allen. 

Informazioni di servizio. Cinecittà si mostra, aperta dal 29 aprile al 30 novembre 2011. Indirizzo: via Tuscolana 1055 - Roma. Orari: tutti i giorni escluso il martedì dalle 10.30 alle 18.30. Prezzo: intero 10 euro, bambini 5 euro.

FONTE: Claudia Morgoglione (repubblica.it)

giovedì 28 aprile 2011

Colori da favola per narrare le tragedie

I lavori a doppio senso di Hillary Pecis, l’artista che fruga sul web


Sono immagini dai colori luccicanti, quasi da illustrazione di libri per bambini. Ma la favola che raccontano è brutta e cattiva. Ed è rivolta a tutti noi, il «gregge confuso» di cui parlava John Milton, assediato da cacofonia di eventi, bizzarria di accostamenti, disorientamento da troppa informazione che diventa disinformazione. La prima personale italiana di Hilary Pecis alla Galleria Glance (fino al 14 maggio)è l’allegoria del pulviscolo di comunicazione dove si agita e si disperde l’attuale mondo: il titolo, «Mezze verità e complete menzogne» prende spunto da un’affermazione di David Carr, giornalista del New York Times, a proposito della comunicazione diffusa attraverso i nuovi media: «Essi diventano un non-luogo in cui una massa di persone dialogano tra loro senza aver letto nulla, senza sapere di cosa stanno parlando in realtà, ma forti del fatto d’aver letto qualcosa che qualcuno ha scritto senza, a sua volta, averlo letto». Un meta-mondo che, a poco a poco, sembra scivolare verso un’allucinazione collettiva. 

La californiana Pecis si fa interprete di questa deriva frugando il web e ricercando immagini, spesso attribuibili a fotografi inesperti, per costruire i suoi collages-denuncia: opere dove anche il (falso) candore e la (falsa) dolcezza si mescolano in modo surreale ad aspetti crudi e disorientanti, dove - come in «Mountain 2» - catene montuose con vette incollate digitalmente raccontano un paesaggio apparentemente plausibile, ma impossibile nella realtà. Così come in «Boom», dove le rose di fuoco d’una raffica di esplosioni possono sembrare allegria pirotecnica o tragedia di bombardamento. 

L’artista interpreta nei suoi lavori la metafora di quel mondo in cui noi, cittadini «docili», collezioniamo e cataloghiamo immagini e informazioni senza distinguere le vere dalle verosimili o dalle false, sottraendoci all’analisi, allo sviluppo d’un pensiero critico e accettando, spesso, di barattare la velocità della comunicazione con la sua carenza di attendibilità quando non di etica. 

In «Trouble around the corner», nell’apparente paradiso terrestre simboleggiato da un angolo di bosco, l’osservatore attento coglie, per esempio, l’incongruità di specie floreali senza parentela geografica e, più ancora, il pericolo che aleggia nell’apparenza idilliaca della quiete: il lupo che pare mansueto eppure guarda di sottecchi un capriolo, un cacciatore seminascosto pronto a uccidere entrambi. Sono i veleni del falso venduto come autentico, del cattivo proposto come buono: castelli d’una zuccherosa Disneyland (c’è qualcosa di meno autentico d’un castello costruito in un Parco di divertimenti?) con gatti d’angora e conigli bianchi che non sentono la minaccia dell’irrompere d’un treno pronto a farne strage. Tutto è illusione, tutto è seduzione d’immagini che cambiano significato al contesto in cui sono inserite e di contesto che cambia il significato delle immagini che contiene. E, così, le flotte d’aerei ed elicotteri da incubo di guerra si stagliano contro un cielo azzurro e innocente come quello che incornicia i sogni più belli. 

Galleria Glance 
via San Massimo 45 
Tel. 345/336.4193

FONTE: Renato Rizzo (lastampa.it)

sabato 23 aprile 2011

Bianca e lucente come in origine. Ecco la nuova Torre di Pisa


Addio a impalcature e ponteggi: ripulita dallo smog dopo vent’anni di lavori. Terminato il restauro dei marmi. E il monumento continua a raddrizzarsi

Addio alla rete di impalcature e ponteggi: terminato, dopo vent’anni di lavori, il restauro dei marmi della Torre di Pisa, le cui storiche pareti erano deturpate da scritte, incisioni e segni di smog e degrado. Piazza dei Miracoli torna così all’antico splendore, mentre la Torre continua a raddrizzarsi, secondo un programma che dovrebbe portare a un consolidamento del monumento destinato a durare almeno per i prossimi trecento anni. A mezzogiorno di ieri, sotto un sole quasi estivo, la Torre Pendente risplendeva in Piazza dei Miracoli. Mai pisani e turisti l’avevano vista così bianca. E libera, dopo vent’anni, da impalcature e «brache», ponteggi e legacci, quell’improbabile camicia di forza che il monumento ha dovuto indossare contro le follie di una pendenza sempre più pericolosa e un lento eppure inesorabile degrado dei marmi.

L’operazione maquillage si è conclusa positivamentee ieri anche l’ultima struttura esterna, posizionata per consentire la pulitura dei settemila metri quadrati di marmi, è stata rimossa. «È un evento speciale che aspettavamo dal 1990 — dice il sindaco Marco Filippeschi — una sorpresa di Pasqua per Pisa, l’Italia e il mondo. Il restauro è stato eccellente, un’opera di valenza internazionale ammirata e invidiata da tutti».
L’evento sarà festeggiato ufficialmente il 17 giugnodall’Opera Primaziale (l’organismo statale che sovrintende i monumenti di Piazza dei Miracoli), decennale della riapertura della Torre chiusa dopo l’allarme pendenza, quando anche gli ultimi e invisibili lavori, stavolta nelle viscere del monumento, saranno conclusi, ma intanto da ieri il Campanile pendente si mostra al mondo nella sua originaria bellezza.
Il lavoro di restauro conservativo e pulitura da smog e inquinamento dei marmi esterni è stato realizzato da un équipe di professionisti super specializzati, i migliori al mondo.
«Abbiamo deciso di non sostituire i marmi come accaduto nei secoli per altri restauri — spiega l’architetto Gisella Capponi, direttore dell’Istituto superiore per la conservazione e per il restauro del ministero dei Beni Culturali—al contrario abbiamo ricollocato antichi pezzi staccati e eseguito un’opera di consolidamento e restauro conservativo con interventi di pulitura e consolidamento di marmi disgregati. Nonostante l’estensione dei marmi, abbiamo lavorato centimetro dopo centimetro».
Adesso un cantiere invisibile lavora a pieno ritmo all’interno della Torre. C’è da rimuovere un solaio al primo ordine (il primo piano del monumento) costruito nel 1935 e sul quale erano stati posizionati i macchinari di monitoraggio. Non è un intervento tecnico, ma anch’esso segue una filosofia architettonica per ripotare il campanile all’antico splendore.
Come un tappo fastidioso, per 76 anni il solaio ha oscurato totalmente la visuale interna impedendo, a chi entra dalla piccola porta d’ingresso, di vedere la luce filtrare dalla cella campanaria e di notte di scorgere uno spicchio di cielo stellato. «Adesso il solaio è stato demolito — annuncia Giuseppe Bentivoglio, ingegnere e direttore tecnico dell’Opera del Duomo —. A fine maggio o inizio giugno, quando saranno tolti i ponteggi interni, chi entrerà nel campanile potrà vedere sino all’ultimo ordine». Una sorta di settimo cielo nel quale i raggi del sole si divertiranno a creare giochi di luce tra loggiati, arcate e marmi. Il settimo ordine, a differenza degli altri, è composto non solo da un loggiato, ma pure da arcate oscurate negli anni da grate e portelloni per non fare entrare i piccioni. Anche questi impedimenti saranno rimossi.
FONTE: Marco Gasperetti (corriere.it)

mercoledì 20 aprile 2011

Quei potenti ridotti a ortaggi a Milano (quasi) tutto Arcimboldo

La vastissima fama inversamente proporzionata al raro catalogo che per l'80 per cento è esposto a Milano. L'imperatore Rodolfo ritratto come il dio "Vertunno", ma fatto di verdure e frutta. Le "Teste reversibili" anticipano la natura morta. Al Louvre, dopo la "Gioconda", il pubblico cerca le sue "Quattro stagioni". Caravaggio non può non aver visto a Milano quegli straordinari esempi "cavati dal naturale"


Giuseppe Arcimboldo o Arcimboldi (1526-1593). In ogni caso sempre con quell'"Arci" che è come predestinazione di una arci-pittura, eccessiva, anche inquietante. Quanti Arcimboldo scopriamo in questa mostra a Milano, Palazzo Reale, "Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio" (fino al 22 maggio), insieme all'artista che è nella testa della gente, al montatore-compositore di umane o mitiche sembianze con frutta, ortaggi, fiori, tronchi e rami, foglie, ghiande, steli di grano, pesci, funghi (larghi, per i cappelli). Le celeberrime "Teste composte", le "Teste reversibili" (ceste di frutta o verdura che rovesciate, rivelano teste ridicole), le "Stagioni" e gli "Elementi".  Nell'"Acqua" sono state classificate 61 specie di animali e 81 di fiori e foglie nella "Primavera". Affascinanti e inquietanti: un cetriolo deforme, una zucca piena di protuberanze, un cefalo possono essere parte di un volto umano. E Gombrich ricorda che nel 1937 "i surrealisti, oltre ad ammirare Bosh, eressero uno speciale piedistallo per Arcimboldi". E così i dadaisti. Neanche Philip Haas (1954) si è liberato dello spirito di Arcimboldo come dimostra  nella piazzetta Reale il suo "Winter" in fibra di vetro pigmentata e dipinta, alto 4,27 metri.

Sublimazione della pittura di Arcimboldo nei due aspetti: quello artificioso e inventivo ("invenzioni e capricci né quale egli è unico al mondo") e  il fortissimo legame con la realtà, l'imitazione basata su di un naturalismo "minuzioso". In tavolette per godimenti privati. C'è l'autore, poco più che ventenne, dei cartoni per le vetrate del duomo di Milano; per il gonfalone della città di Milano; come autore con Giuseppe Lomazzo dell'affresco in San Giovanni Battista a Monza; per arazzi. L'impeccabile illustratore naturalista di animali e uccelli, piante e fiori, tanto che il grande Ulisse Aldrovandi, naturalista e medico, ne utilizza i disegni nei volumi scientifici. Regista e "fabricator" di feste imperiali, di cortei, tornei, creatore di costumi e maschere coi quali partecipa ai cortei (dai quali apprendiamo che è un uomo alto), che trasforma cavalli in draghi e utilizza elefanti. Progettista di una fontana rotonda per un parco viennese non compiuto. Progettista di slitte dalla decorazione più sbrigliata, a forma di conchiglia, "intrecciate di verdure e rami in infinite forme".
Un Arcimboldo anche "oculato stratega" della propria carriera quando commissiona allo storico milanese Paolo Morigia una falsa genealogia e "arruola" un giovanissimo letterato, Giovan Battista Fonteo (o Fontana), per celebrare le proprie creazioni "all'internodi un programma allegorico" che esalti l'imperatore degli Asburgo. Quando, nell'autunno 1587, torna a Milano dalla corte di Vienna e poi di Praga, e agli amici letterati e pittori narra di quegli anni "straordinari", i rapporti privilegiati di vera amicizia con i due imperatori, Massimiliano II a Vienna, Rodolfo II a Praga.  

C'è una data di svolta nella vita di Arcimboldo. Il 1562 quando viene chiamato a Vienna da Massimiliano, figlio dell'imperatore Ferdinando I, come artista di corte. Ma questa chiamata è anche un "rebus" come lo chiama Silvya Ferino-Pagden, direttore delle gallerie d'arte del Kunsthistorisches Museum di Vienna, che ha curato mostra e catalogo Skira. Non si trova quel "grido della sua fama" che avrebbe solleticato Massimiliano a chiamare Arcimboldo. Ma ecco, che nella mostra, Francesco Porzio presenta, come "novità assoluta, sulla base di analisi acutissime", tre tavolette che farebbero risuonare potente "quel grido". Sono "Inverno", "Primavera", "Estate", della Pinacoteca di Monaco e custodite in un castello della Baviera "autografe" di Arcimboldo e "precedenti" alle prime "Stagioni" dipinte per Massimiliano nel 1563. 
Le "Teste composte" sarebbero quindi nate a Milano. A Vienna Arcimboldo avrebbe ripetuto le "Stagioni" in "forma più elegante" e arricchite con gli "Elementi" "creati apposta per Massimiliano.
"E' un fatto - riferisce Silvya Ferino-Pagden -, che la monografica di Arcimboldo a Vienna-Parigi nel 2007-2008, ha risollevato un tale interesse su Arcimboldo che i curatori del Louvre classificano l'attenzione del pubblico sulle "Quattro stagioni" (le versioni possedute dal museo) al "secondo posto dopo la 'Gioconda'". Le "Stagioni" del Louvre sono in mostra. Dell'"Autunno", che ha un manto formato dalle doghe di una botte e incoronato di pampini e grappoli d'uva, non fatevi sfuggire  la zucca dalla quale non ha fatto in tempo a mettersi in salvo una lumachina.

FONTE: Goffredo Silvestri (repubblica.it)

martedì 19 aprile 2011

Primo Pulitzer a un reportage online. Premiata l'inchiesta di "ProPublica"

Breaking news a bocca asciutta, tocca all'approfondimento. Pochi exploit per i colossi

Nessun premio per le "Breaking News" e, per la prima volta, un riconoscimento a un reportage che non è mai finito sulla carta stampata. I premi Pulitzer del 2011segnano una svolta nel mondo del giornalismo. 

I riconoscimenti assegnati lunedì dalla Columbia University alle migliori firme dell`informazione hanno portato una ventata di novità: per la prima volta non sono solo poche testate a dividersi tutti i premi, ma c`è stato spazio persino per un magazine che esiste solo online. Il privilegio è andato a ProPublica, sito web premiato per la sua serie di articoli sul mondo della finanza, "The Wall Street Money Machine", che ha vinto per il giornalismo nazionale.


I giganti della carta stampata hanno portato a casa pochi premi: il New York Times ha visto vincere il suo commentatore economico, David Leonhardt, e, nell`ambito del giornalismo internazionale, i suoi inviati in Russia Clifford Levy e Ellen Barry per i servizi realizzati dalla Russia nel 2010. Il Wall Street Journal, invece, ha avuto il suo primo riconoscimento da quando è stato acquistato da Rupert Murdoch. La scelta è ricaduta su Joseph Rago, che ha firmato alcuni editoriali sulla riforma sanitaria voluta dal Presidente Barack Obama.



Festeggia anche Carol Guzy, fotografa del Washington Post: è la prima giornalista al mondo ad avere vinto quattro premi Pulitzer. Quest`anno, in particolare, sono state le immagini del terremoto di Haiti a farle conquistare il riconoscimento, che ha diviso con Nikki Kahn e Ricky Carioti. Tra i grandi nomi anche il Los Angeles Times, premiato nella categoria del giornalismo di pubblico servizio e in quella della fotografia.



A completare la rosa dei premi giornalistici, molte testate più piccole: il Milwakee Journal Sentinel per gli approfondimenti; il Chicago Sun-Times per la stampa locale; il Sarasota-Herald Tribune nel campo del giornalismo investigativo, il Denver Post per il giornalismo a fumetti e il Boston Globe per la critica, mentre il miglior articolo in assoluto è firmato da Amy Ellis Nutt dello Star Ledger di Newark.



La premiazione coinvolge anche sette categorie nel mondo delle arti: Kay Ryan per la poesia con "The Best of it: New and Selected Poems"; Jennifer Egan per la fiction con "A Visit from the Goon Squad"; Bruce Norris per il teatro con "Clybourne Park"; Eric Foner per la storia con "The Fiery Trial: Abraham Lincoln and American Slavery"; Ron Chernow per le biografie con "Washington: A Life"; Siddharta Mukherjee per la saggistica con "The Emperor of All Maladies: a Biography of Cancer" e Zhou Long per la musica con "Madame White Snake".

FONTE: lastampa.it

venerdì 15 aprile 2011

Saviano e la macchina del fango


Lo scrittore apre il Festival del giornalismo a Perugia

Dall'ottobre 2006 vive sotto scorta per le minacce ricevute dalla riminalità organizzata dopo il suo libro Gomorra che, pur essendo un romanzo, ha la forza di un articolo di cronaca. Non è quindi fuori posto che sia proprio Roberto Saviano, martedì 12 aprile alle ore 21, ad aprire il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, la «cinque giorni» dedicata alle tendenze e ai problemi del mondo dell'informazione. Lo scrittore si occuperà di un tema a lui caro, quello della «macchina del fango», che scatta ogni volta che potenti interessi costituiti, più o meno legali, si sentono minacciati. «Spesso mi si chiede - ha scritto - come sia possibile che delle parole possano mettere in crisi organizzazioni criminali potenti. In verità ciò che spaventa è che tutti possano d’improvviso avere la possibilità di capire come vanno le cose. Avere gli strumenti che svelino quel che sta dietro. La diffamazione è stata sempre al centro della mia ricerca perché sono nato in una terra in cui chiunque decida di ostacolare il potere criminale viene diffamato». Come funziona la macchina del fango? «Il meccanismo - risponde Saviano - è evidente, si gioca a buttare fango su chiunque si opponga a certi poteri, ma nel momento in cui il giocattolo della macchina del fango si rompe, nel momento in cui certi meccanismi diventano palesi, sta al cittadino capire come funzionano le cose e modificarne il corso».
Un tema, quello dell'uso strumentale dell'informazione, particolarmente delicato in Italia, dove potere politico, potere economico e proprietà dei media sono intrecciati e dove resiste un soffocante duopolio televisivo che si può trasformare con facilità in monopolio del pensiero unico. Al Festival del giornalismo si parlerà anche di questo, ma non solo. Si parlerà di giornalismo e democrazia, di nuovi media, della sfida tra vecchi e nuovi mezzi di comunicazione, di reporting investigativo e di reportage dai luoghi della guerra e della sventura, di gornalismo online e di carta o su tablet. Con tanti ospiti italiani e stranieri, che forniranno un quadro il più possibile esaustivo di ciò che funziona (o che non funziona) nel rapporto odierno tra cittadini e informazione. Tenendo sempre presente, comunque, il vecchio detto secondo il quale quando i giornali sono solo pieni di buone notizie, le galere sono piene di brave persone.

FONTE: corriere.it

giovedì 14 aprile 2011

Principessa Borghese scatti intorno al mondo

Magnifica Anna Maria de Ferrari, Principessa Borghese-fotografa (1874-1924). Soprattutto perché il suo fascino, di entomologa della vita, cresce poco a poco, levita in una progressiva ammirazione silente. In alcuni di questi fotogrammi lacustri (la famiglia del marito Scipione Borghese, discendente del collezionista di Caravaggio, non possiede soltanto latifondi nell’Agro Pontino, ma anche ville sul Lago di Garda) ti par d'udire addirittura l’affondo di remi solitari ed ancora manzoniani. Le prime immagini che ti conquistano, sono quelle alla Gegé Primoli (il parente di Napoleone pioniere-fotografo della Belle Epoque) alle degasiane cacce di Bracciano, oppure con le amiche nobildonne distese sui parapetti del lago, o ancora con le prodezze nautiche del sodale Nicola degli Albizi, catturato al volo, mentre si tuffa in una levità pneumatica, alla Lartigue. 

Ma l’eleganza aristocratica non basta a questa nobildonna, che segue il marito diplomatico radicale in viaggi coraggiosissimi, nel Giappone, che fu di Felice Beato, ma ora è già mutato, in Afghanistan o in una Samarkanda assolutamente vergine di turismo. Ogni paese uno stile, davvero. In Asia soprattutto la tiratura, meglio, il trattamento artificiale dalle carta di stampa, è granulosa, petrosa, scultorea, senza rischiare cedimenti pittorialisti. Ma non c’è mai nulla di pompier, di leccato in lei, così come quando fotografa, senza lagrimosità materna, una bambina derelitta sull’acciottolato nudo della palude Pontina, oppure appunta un diario di casa, magari l’accidia della vecchia madre ottantenne. 

Ed è incredibile quello scatto riflesso nello specchio del guardarobone di casa, con lei che sta per scattare e la vecchia madre derelitta sullo sfondo, quasi cadavere: un taglio che sta tra Florence Henry e Claude Cahun. Questa pioniera d’una nuova Kodak, portatile, istantanea, ha nel sangue il montaggio di stampo sovietico ed il gusto dell’ombra proiettata, che sarà poi del Bauhaus di Moholy-Nagy e Feininger. Soprattutto quando si autoritrae cinerina, come la Duse appunto di Cenere o lascia cantare l’arabesco delle ombre di cavalli e militari, a Baghdad, nel 1900. 

ANNA MARIA BORGHESE. IL RACCONTO DI UN'EPOCA 
ROMA, CALCOGRAFIA 
FINO AL 29 MAGGIO

FONTE: lastampa.it

venerdì 8 aprile 2011

Quei capolavori che il Reich detestava A Roma le avanguadie dello Städel

Al Palazzo delle Esposizioni arrivano le cento opere del museo di Francoforte, da Monet a Picasso. Con il ricordo del "Dr. Gachet" di Van Gogh sequestrato dai nazisti


"Quando il falegname coprì la tela con l'incerata, gli occhi azzurri di Gachet mi fissarono con rimprovero". E' il triste ricordo di Oswald Goetz, l'assistente di Georg Swarzenski, direttore dello Städel Museum di Francoforte nella Germania di Hitler. In quel '37, quando il nazismo bandì le avanguardie come arte degenerata, Hermann Goering dava l'ordine di sequestrare l'inutile "Ritratto del Dr. Gachet" la prima versione dipinta da Van Gogh qualche tempo prima del suicidio, per venderlo e ricomprare arazzi e opere antiche. Quegli "occhi azzurri di rimprovero", sono solo uno dei tanti capitoli che costruiscono la storia dello Städel Museum, originato dalla collezione privata del mercante e banchiere Johan Friederich Städel, che per la prima volta porta fuori confine alcune sue perle in occasione della grande ristrutturazione che lo vedrà riaprire rinnovato nel febbraio del prossimo anno. 


"100 capolavori dello Städel Musem di Francoforte" è la mostra che si apre dal 1 aprile al 17 luglio al Palazzo delle Esposizioni sotto la cura di Felix Krämer, che dal classicismo tedesco dei Nazareni del primo Ottocento, attraversano lo "scandalo" del realismo, la poesia visionaria del simbolismo, l'esplosione dei colori impressionisti, l'emotività espressionista, l'assolo duro e drammatico di Max Beckmann, protagonista della Nuova Oggettività tedesca, cui è dedicata un'intera sala, fino alla frontiera estrema del cubismo e dell'astrattismo. 

Basti solo pensare che il percorso inizia con il ritratto di "Goethe nella campagna romana" di Tischbein, immagine-icona del mito del Grand Tour d'Italia: "E'l'opera più citata in Germania e ricollegata allo scrittore  -  racconta Krämer - è particolarmente legato a Roma perché raccoglie tutte le suggestioni che Goethe ha avuto da questa città. In visita al museo, Andy Warhol volle vedere solo quest'opera, che riprodusse nel suo stile. C'è una copia nella Casa di Goethe a Roma. In entrambe Goethe ha due piedi sinistri, ma non siamo riusciti a spiegarne il motivo". 

Il percorso si chiude col "Ritratto di Fernande Olivier" di Pablo Picasso, esempio potente della rivoluzione cubista, acquistato dal museo nel 1967, perché rappresentasse la rivincita sul perduto Van Gogh. Quello del Dr. Gachet, infatti, rimane un mistero insoluto, come racconta il direttore del Palaexpo Mario De Simoni: "Dopo che Goering la vendette, l'opera volò in America con un proprietario ebreo che la fece esporre a lungo al Metropolitan. Dopo la morte anche della moglie, l'opera fu venduta ad un miliardario giapponese per 86,5 milioni di dollari, prezzo che è rimasto record per quattordici anni. Alla sua morte è stato probabilmente venduto anche se lui aveva espresso il desiderio che l'opera venisse cremata con lui. Fatto sta che è sparito nel nulla". 

E lungo sette sale viene declinata una parabola della storia dell'arte tra Ottocento e Novecento. La "Veduta del Duomo di Francoforte" di Courbet, realizzato nei suoi soggiorni on Germania, quando già era noto come l'artista dello scandalo per il suo feroce realismo. I paesaggi di Corot, e il grande "Frutteto" di Daubigny, una delle ultime opere dell'artista. Redon, Böcklin, Von Stuck, intrigano e inquietano. Le colazioni di Monet e Renoir e le strade di Cézanne e Van Gogh. E il "Ritratto delle ballerine" di Degas, dalla singolare evoluzione pittorica: a metà si coglie una linea che divide la scena dell'opera tra orchestrali e ballerine. La parte superiore è un tratteggio di tonalità brillanti e cangianti argentee e corallo, mentre quella inferiore, di taglio fortemente fotografico con i profili in primissimo piano, è dominata dai colori scuri. 

E Max Beckmann, che ha un'intera sala con dieci opere: "Curiosa la storia del 'Doppio ritratto di donne', a destra l'ex moglie del direttore del museo, a sinistra l'amante, ognuna ritratta all'insaputa dell'altra. Quando dicono che i tedeschi non hanno senso dell'umorismo, non conoscono Beckmann. Il quadro donato dall'artista, per ovvi motivi, è rimasto chiuso nei depositi finché il direttore non è morto, perché la moglie non sapeva della relazione". Un paesaggio raramente "civilizzato" di Rousseau il Doganiere, e le maschere di Ensor, Matisse e Nolde. "Lo Städel non è un museo fondato dall'aristocrazia o dalla chiesa, ma è la più antica istituzione borghese della Germania - racconta il direttore Max Hollein - Creato dai cittadini grazie a donazioni. L'idea della collezione ha puntato sulla qualità, e sempre con opere espressione delle correnti di ogni epoca".

Notizie utili - "100 capolavori dello Stadel Musem di Francoforte", dal 1 aprile al 17 luglio 2011, Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194. Roma
Orari: domenica, martedì, mercoledì, gioveì 10-20, venerdì-sabto 10-22:30.
Ingresso: intero €12, ridotto €10.
Informazioni: 0639967500
Catalogo: Giunti

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

lunedì 4 aprile 2011

Carditello, gioiello devastato all'asta nella terra di Gomorra


LA REGGIA borbonica di Carditello, a pochi chilometri da Caserta, svetta nella piana aversana, circondata da discariche e attorniata dagli sversatoi abusivi in cui la camorra ha buttato rifiuti d'ogni specie. È in condizioni disastrose, ma il pericolo più imminente per questo capolavoro dell'architettura settecentesca non è che si stacchi ciò che resta degli affreschi di Jacob Philip Hackert oppure che i ladri si portino via, oltre ai camini e alle acquasantiere, già derubati, i fregi e i marmi delle scalinate. Il rischio è che Carditello venga venduta all'asta, al prezzo di 25 milioni (secondo un calcolo, 2,5 euro al metro quadro). E che venga venduta non si sa a chi. Ma non è difficile immaginare chi in questa piana, nel cuore di Gomorra, ha più soldi e tanto desiderio di gettarli in un'impresa pulita.



La storia di Carditello è esemplare di come in Italia marcisca un tesoro che altrove avrebbe ben diverso destino. La reggia è di proprietà del Consorzio di Bonifica del Basso Volturno, un ente pubblico gravato da una serie di debiti con il Banco di Napoli, poi assorbito da Banca Intesa (ma il Consorzio accampa anche molti crediti dalla Regione e da alcuni Comuni). Ora la Banca esige il rimborso e il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha avviato da qualche settimana la vendita all'asta. La procedura partirà in autunno, ma le prime sedute, si sente dire, andranno deserte e il prezzo calerà e così Carditello per poche manciate di euro diventerà, se va bene, una sala per matrimoni.  

La reggia è al centro di un paesaggio a tratti miracolosamente intatto. Dall'altana, che sovrasta il corpo centrale, destinato alla residenza del re, si domina la partizione regolare delle strade che convergono verso l'edificio. Più oltre c'è Casal di Principe, il regno dei casalesi, e quasi a corona incombono le discariche Maruzzella, Casone, Santa Maria la Fossa, Parco Saurino, Ferrandelle, Pozzobianco, e poi i siti di stoccaggio dell'immondizia con milioni di balle ricoperte di teli. Terribile destino per questa zona, i Regi Lagni, dove il viceré Don Pedro di Toledo, lo stesso che disegnò i Quartieri spagnoli di Napoli, iniziò a metà del XVI secolo una monumentale bonifica. I lavori furono proseguiti dai Borbone, che realizzarono un delicatissimo reticolo di canali, con un "lagno" principale lungo 55 chilometri e una serie di piccoli affluenti a spina di pesce. Qui veniva convogliata l'acqua e così una distesa di pantani, piagata da malaria e alluvioni, si convertì in terreni fertilissimi, ospitando coltivazioni pregiate, comprese quelle del lino, e allevamenti. La sistemazione durò fino agli anni Trenta del Novecento. 

Dall'altana della reggia di Carditello quella trama geometrica di canali, opera della migliore ingegneria idraulica, è ancora visibile, sebbene ridotta ad appendice di un sistema fognario. E  sebbene ospiti un mortale parco di discariche abusive e legali, che soltanto una follia perversa ha immaginato di collocare in questo territorio fatto di acque che emergono e di suoli che s'inabissano. Due anni fa la Regione invitò uno dei più esperti paesaggisti europei, Andreas Kipar, per disegnare un progetto che risanasse i canali e recuperasse i terreni all'agricoltura. La tenuta intorno alla reggia di Carditello, si disse, sarebbe diventata "un orto della biodiversità". 
Non se ne fece nulla. 

Nonostante il territorio sia vandalizzato, Carditello resiste. Costruito nel 1787 da Francesco Collecini, allievo di Luigi Vanvitelli, fu usato dai sovrani come residenza di caccia e per l'allevamento di cavalli pregiati. Hackert affrescò le sale del corpo centrale e vennero decorate la cappella e le scalinate. Nei due padiglioni laterali erano sistemate le stalle, secondo moderni criteri di allevamento. Cavalli e bufale pascolavano nell'intera tenuta e qui si produceva la migliore mozzarella del regno.  

L'edificio centrale è stato restaurato nel 2000, ma senza manutenzione quei lavori resistono a stento. E ogni giorno c'è un pezzo in meno. Nelle stalle venne sistemato, alla fine degli anni Settanta, un museo della civiltà contadina, i cui oggetti ora giacciono abbandonati, mentre tanti altri sono stati derubati o trasferiti altrove. Ora non c'è più niente. Le scale sono divelte. I tetti crollano, se piove entra acqua e le travi penzolano minacciose. Il cancello è chiuso. Per entrare c'è bisogno di un permesso del giudice. 
Si sono mossi comitati di cittadini, moltissimi i giovani. Sono stati organizzati sit-in. "Questo territorio è devastato: perché non si fa niente per quei tesori che sono ancora in piedi?", si domanda Antonio D'Agostino, animatore del gruppo Comunità che viene. 

Italia Nostra di Caserta, presieduta da Maria Carmela Caiola, sta promuovendo un appello a Giorgio Napolitano. Finché è stato in carica Antonio Bassolino, la Regione ha mostrato segni di interesse. Ma la giunta di Stefano Caldoro ha annullato i propositi dei predecessori. Eppure, dicono Alfonso De Nardo, commissario del Consorzio proprietario di Carditello, e il direttore generale Antonio De Chiara, "basterebbe che Regione e Comuni pagassero le somme che ci debbono per contributi di bonifica, e noi potremmo riacquisire Carditello e avviarne il restauro. Poi si possono immaginare varie destinazioni, da quella espositiva e museale a quelle didattiche e di ricerche fino alla promozione dei prodotti di qualità, come la mozzarella di bufala, o alla riscoperta delle antiche tecnologie e pratiche colturali". "Carditello è la Venaria del Sud", spiega Alessandro Magni dell'associazione Siti Reali. "Ma mentre sulla reggia piemontese le istituzioni sono intervenute e l'hanno trasformata in un gioiello, sede di mostre e iniziative di livello internazionale, quello casertano è un tesoro lasciato a se stesso, in uno stato di degrado assoluto".  

La soluzione è apparsa più volte a portata di mano. Fra il Consorzio di bonifica, che ha intenzione di restare in possesso della reggia, e la società di recupero crediti sono in corso trattative. Ma dal sito di Carditello non si allontanano gli appetiti più minacciosi.


FONTE: Francesco Erbani (repubblica.it)