giovedì 26 maggio 2011

"FUORIQUADRO": fusione artistica tra fotografia e pittura

L'incontro/scontro tra la fotografia e le pennellate di colore acrilico è la coesione artistica e creativa di due amici che congelano ed interpretano a loro modo le imnmagini della società, del tempo e delle sue leggi, del movimento ed altri elementi quotidinamente sotto i nostri occhi.
Lo spazio e il tempo raffigurato, gli scorci quotidiani visti da differenti punti di angolazione, le strade, i palazzi di vetro, luci, ombre e colori...
Ogni cosa ha una propria solitudine.

Pittura e fotografia, percorsi di storie intime di viaggi unite in una mostra che invita a fermarsi e riflettere sulla condizione umana.

IMMAGINI FOTOGRAFICHE 
Gianluca Lo Grasso

PITTURA
Andrea Bonardo

INGRESSO GRATUITO

APERITIVO DALLE ORE 19.30

Vi aspettiamo al Rebacco WIne Art ShowRoom in Via Pomezia 12, Roma

mercoledì 25 maggio 2011

Lorenzo Lotto: genio, fede, mistero

Alle Scuderie del Quirinale 60 opere dal 2 marzo


E’ bellissimo, non troppo praticato, la sua mostra promette di essere una tra le grandi dell’anno, accompagnata da una serie di approfondimenti (conferenze a Roma; un progetto di restauro e di conoscenza nelle sue “Terre”, dove ne restano molte opere; la ovvia sponsorizzazione del gioco del Lotto: se non lui, chi mai?; Skira ripubblica l’introvabile testo di Anna Banti); tuttavia, rimane tra i più misteriosi. Non conosciamo né dove né come sia sbocciato; possiamo soltanto immaginare ed arguire perché se ne sia andato da Venezia, e abbia condotto una vita raminga (le Marche; un salto nella Roma dei Papi; Bergamo; Venezia, ma in modo gramo; di nuovo le Marche: prova una lotteria per vendere 46 opere, gliene comprano 7 e per appena 39 scudi dei 300 sperati; l’esilio come oblato nella Santa casa di Loreto); non imita i grandi del tempo (Tiziano su tutti), è un isolato, però i ritratti restano dei più belli; è il più religioso, ma sospettato di vicinanza ai luterani; le sue pale sono le più “libere” ed inventive; è «buono come la bontà, virtuoso come la virtù» (Aretino), però la fortuna non gli arride, finché Bernard Berenson, a fine Ottocento, non lo ricolloca tra i grandi maestri. 

Di Lorenzo Lotto, nato verso il 1480 e defunto nel 1556, da mercoledì al 12 giugno le Scuderie del Quirinale ospitano una copiosa mostra, coordinata da Giovanni Carlo Federico Villa (cat. Silvana), con quasi 60 sue opere, tra cui alcune autentiche icone, dai musei di mezzo mondo. Nei tempi di miseria che corrono, specie culturale, l’impresa non è da poco: «E’ la nostra linea espositiva; ancora più consona, quando la crisi va inopinatamente a discapito del patrimonio d’arte», dice il presidente Emmanuele Emanuele. «Un valore assicurativo di 340 milioni e restauri per 700 mila euro», dice il direttore generale Mario De Simoni.

Al piano terreno, la religione: con le pale alte fino a 4 metri e mezzo (il Polittico di San Domenico di Recanati), o larghe un’eternità (quello di Ponteranica, Bergamo, che s’è visto assai poco: trafugato nel 1973, e recuperato); anche quella dei Carmini, con un olio di 3 metri che è ai Santi Giovanni e Paolo sempre a Venezia, di cui lui fu ospite. Al piano superiore, i ritratti: tra cui quelli di Bernardo de’ Rossi (Napoli), il vescovo che per primo, però per poco, lo protegge; e di Andrea Odoni (che è della Regina Elisabetta; l’archetipo del collezionista, un’assoluta originalità: tra le sue anticaglie, ed una statuetta in mano); un capolavoro bergamasco, la Lucina Brembati del 1518; e l’eccezionale Triplice ritratto di orefice (a Vienna).

Non si possono trasportare l’oratorio affrescato di Trescore, né le Tarsie bergamasche di Santa Maria maggiore, o gli affreschi di San Michele che sono nella stessa città; ma si possono ammirare il Trionfo della Castità (coll. Pallavicini); lussuose Le nozze mistiche di Santa Caterina con il donatore Niccolò Bonghi (Bergamo: lui sapeva anche di tappeti); le Allegorie (copertura dei dipinti) che lo squilionario Kress, come li chiamava proprio Berenson, compera e porta negli Usa; e via elencando, fino alle opere estreme: documentatissime in un prezioso Libro dei Conti che spiega parecchio di lui; ai Ritratti di fra’ Gregorio Belo e Gian Giacomo Stuer con il figlio Gian Antonio, ormai migrati anch’essi oltre Oceano, o a quello d’uomo restato alla Borghese, al pendant di Febo da Brescia con Laura da Pola, che invece rimane a Brera.

Si passa per queste sale, pensando alla scarsa buona sorte di un buono e solitario che diceva di dover vendere «a poco mercato», e «non volle darmi di più, pur amico che fosse». Vasari quasi lo tralascia, anche se «entra in empatia con i Santi che dipinge» (Alan Brown); è dei più documentati (il Libro dei Conti, il testamento, 39 sue lettere); «mostra il più intelligente e disinvolto uso delle fonti»: un processo «sofisticato» (Lucco); e (Gentili) i «ritratti straordinari sono pieni di dati ricavati dal vissuto: matrimoni, nascite e lutti, malattie e onestà nell’amministrazione, benessere, organizzazione della casa»: tante storie e tante metafore; c’è perfino una rara mosca dipinta (ah, il testo di Chastel edito da Franco Maria Ricci!). 

Una galleria di sentimenti, una sequenza di originalità, una bellezza straripante. Ma a Roma, Vaticano, le sue opere sono state presto abbattute; e «deve aver dipinto, meditato e molto sofferto nei tre anni» in città, (ri)scrive la Banti, tra i suoi (ri)scopritori: però non ce ne resta, poveretto, nemmeno una traccia. E la mostra romana ha nulla da invidiare, anzi, a quella della riscoperta, organizzata nel 1953 da Pietro Zampetti da poco scomparso. Per pregustare uno che non dipinge «il trionfo dell’uomo ma gente che chiede consolazione alla religione», anche perché «i viaggi l’avevano messo in contatto con le miserie d’Italia» (Berenson); il «veneziano fuori dalla cerchia di Venezia» (Adolfo Venturi) più grande: immenso.

FONTE: Fabio Isman (ilmessaggero.it)

martedì 24 maggio 2011

Da Woodstock a Jacko Quando l'arte sposa il rock

PRATO - Che c'entra Woodstock, la tre giorni (e tre notti) di grande musica all'insegna della cultura hippy e del "flower power", e la mostra "When Attitudes Become Formes" che Harald Szeemann, tra i massimi critici d'arte, costruì a Berna? Oltre ad avere lo stesso anno di realizzazione, il 1969, ciascun evento ha segnato un'epoca, inaugurando una nuova frontiera della creatività, tra utopie, eccentricità, disincanto e qualche acido. Erano due modi paralleli di vivere la cultura "on the stage": se in quei dintorni di Bethel Jimi Hendrix, Joe Cocker, Santana e Janis Joplin esplodevano tutta la loro rabbiosa genialità tra amore, pioggia, fango e sogni liberatori, alla Kunsthalle di Berna, gli artisti chiamati a raccolta da Szeemaan, tiravano fuori idee piuttosto che opere, plasmando sensibilità ed emozioni, provocando e facendo riflettere col gesto e l'azione. Non erano altro che due livelli di "esibizione" in balia di un'esuberanza nuova dell'arte. Ed è da questa affinità elettiva che prende il via la mostra "Live! L'arte incontra il rock", a cura di Luca Beatrice e Marco Bazzini, che si apre dal 21 maggio al 7 agosto al Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci. 
Un percorso non così scontato e non così semplice, che va affrontato con la giusta aspettativa: non è una mostra sulla storia del rock, nè una mostra sulla storia dell'arte degli ultimi quarant'anni, ma un viaggio attraverso i punti di contatto, le osmosi, che incredibilmente rock e arte hanno registrato. Dall'ultimo concerto dei Beatles tenuto sul tetto della casa discografica Apple nel 1969, all'ultimo concerto "incompiuto" di Michael Jackson, scippato dall'eccentrica sorte in quel 25 giugno di tre anni fa che l'ha visto morire, gli eroi, anche "tragici", della musica hanno trovato corrispettivi nella febbre bulimica degli artisti, ansiosi di svolte e affermazioni delle proprie identità. 
All'euforia di Woodstock allora, sfilano artisti come Yoko Ono, Robert Indiana, Richard Hamilton, Robert Rauschenberg, Ettore Sottsass. Nel 1971, i progressiv e post psichedelici Pink Floyd irrompevano nell'anfiteatro di Pompei per uno spettacolo rivoluzionario, dove le sinfonie erano scortate da vapori e acque calde ad evocare il Vesuvio. Un modo loro per impossessarsi della natura antica, che trova corrispondenza nel padre della Land Art Robert Smithson, con la sua "Spiral Jetty" restituita al mondo dall fotografie di Gianfranco Gorgoni. 

E che dire di David Bowie, pioniere della performance autoreferenziale, che seduce le platee con quel suo Ziggy Stardust, "rockstar di plastica", emblema di mistero e fragilità, ambiguità e insicurezza. Il suo interlocutore potrebbe essere Urs Lüthi, performer di fisicità teatrale, che viene "lanciato" dalla mostra "Contemporanea" che nel '73 Achille Bonito Oliva aprì al parcheggio di Villa Borghese a Roma. Tra sperimentazioni elettroniche e contaminazioni di generi, arrivano anche Nam June Paik, che di lì a poco diventerà il padre della videoarte, e Joseph Beyus, icona di un'arte "on the stage". Verso la fine degli anni '70, impossibile trascurare la grandiosa follia punk dei Sex Pistols, che si alleò con la graffiante e caustica forza grafica di Jamie Reid con le sue copertine giocate sul "taglia e incolla". 


Gli anni Ottanta, ossigenati da edonismo e ottimismo, sfilano tra l'affermazione della Transavanguardia di Sandro Chia e Nicola De Maria, per il made in Italy di Alessandro Mendini, fino al graffitismo di rock art star come Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, portate a braccetto dall'esuberanza di una giovanissima Madonna. Epilogo non può che essere la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, celebrata tra il concerto cult dei Pink Floyd e le opere di Leonid Sokov. 


Gli anni Novanta, giocano in casa tra Vasco Rossi e Stefano Arienti, mentre all'estero, la sofisticata Bjork collabora con Matthew Barney (suo marito), e il Brit Pop esplode nella Young British School, capitanata da Damien Hirst. Gli anni zero mettono in discussione la concretezza della rock star, fantasma evocato dall'estro dell'arte. Esempio clou sono i Gorillaz di Damon Albarn, band costruita sui personaggi disegnati da Jamie Hewlett. E Michael Jackson, omaggiato post mortem dal suo "This is it". 


Notizie utili  -  ""Live! L'arte incontra il rock", dal 21 maggio al 7 agosto 2011, Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, viale della Repubblica 277, Prato.
Orari: tutti i giorni 16-23, chiuso martedì.
Ingresso libero
Informazioni: 0574-5317.
Catalogo: Rizzoli Editore

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

lunedì 23 maggio 2011

Rivoli si riconnette e sbarca a Mosca

Maiolino, Macuga, Benassi: oggi il nuovo allestimento del museo mentre in Russia approdano le collezioni d’arte povera

Fermati, ripara, prepara: variazioni all'Inno alla Gioia per un pianoforte modificato. Questo è il lungo titolo dell'installazione/performance della coppia Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla che rappresenta il pezzo forte della nuova fase dell’allestimento della collezione del Castello di Rivoli. Si tratta di un incredibile e assurdo pianoforte a coda con un buco nella sua pancia dove è incastrato un pianista in piedi che suona la tastiera al contrario. La musica è quella del finale della Nona di Beethoven, inno alla fraternità universale utilizzato in tutte le salse e nei più diversi e contraddittori contesti ideologici, e che è diventato l’inno dell'Unione Europea. Due pianisti che si danno il cambio lo eseguono senza sosta. 

La performance provocatoriamente dadaista è sconcertante e decisamente spiazzante, perché da un lato la sequenza di suoni risulta incompleta (dato che mancano le corde di due ottave dello strumento) e dall’altro il piano su rotelle vaga per la sala spinto dall’esecutore. Questa operazione ad alto potenziale metaforico, che si collega alla gloriosa serie dei pianoforti modificati da artisti d’avanguardia come John Cage e vari esponenti di Fluxus, è un esempio significativo del modo di lavorare di Allora e Calzadilla. 

Il duo, attraverso le più svariate modalità operative (sculture, oggetti, video, foto e performance) affronta in modo anche ludico e spettacolare, ma sempre con un forte tensione critica, le problematiche più complesse e drammatiche dell'attuale società globalizzata. Sono tra gli artisti internazionali che meglio rappresentano quella che oggi è la tendenza di ricerca più vitale e impegnata nell'arte contemporanea: non a caso la loro mostra nel padiglione degli Stati Uniti è forse l’evento più atteso della prossima Biennale di Venezia. 

Qui al Castello Rivoli il loro lavoro che si espande sonoramente anche nelle altre sale, ha un valore emblematico dello spirito con cui Beatrice Merz, condirettore del museo, ha impostato la seconda puntata di «Tutto è connesso». È questo il nome del progetto in progress attraverso cui si sta sviluppando la nuova messa in scena della collezione del museo: insieme a una rinnovata presentazione di installazioni e opere di artisti ormai classici che formano l’anima «storica» del luogo propone lavori di artisti più giovani (anche italiani come Favaretto, Bartolini, Airò, Migliora). «Tutto è connesso 2» è incentrata su opere che hanno una più marcata connotazione politico-sociale.

Oltre a Allora e Calzadilla, sempre in sale personali troviamo altri quattro artisti. Elisabetta Benassi lavora sulla trasmissione di informazioni e documenti visivi prelevati da giornali e archivi del passato, e sulla loro rielaborazione intenzionalmente spiazzante e contraddittoria: ci accoglie con una serie di mimetici acquerelli che illustrano notizie stampa. Ha realizzato anche un grande tappeto su cui è tessuto con molta precisione un (ipotetico) vecchio telegramma delle Western Union inviato dall’architetto e filosofo Buckminster Fuller allo scultore Noguchi in cui viene spiegata la teoria della relatività. Un bel cortocircuito spazio temporale. 

Goshka Macuga già presente nel museo con un grande tavolo per riunioni sotto l’egida di Guernica (utilizzabile anche dal pubblico), rende omaggio al situazionista Pinot Gallizio rifacendo alcune sue ceramiche distrutte. La ceca Katerina Seda, con un’installazione di elementi metallici minimalisti-concettuali ricostruisce a pavimento la situazione di disagio sociale della sua cittadina stravolta dall’insediamento di una fabbrica della Hyundai.

E infine ecco l’italo-brasiliana Anna Maria Maiolino che ha riempito una stanza con centinaia di uova fresche che il pubblico è invitato ad attraversare possibilmente senza fare disastri. La metafora è chiara: è una situazione in cui si può percepire direttamente la precarietà e la fragilità della vita, a tutti i livelli. Il percorso espositivo del museo si carica così di energie estremamente attuali, attraverso opere d'arte che funzionano come dispositivi estetici con l’intento di aprire nuove prospettive di visione del mondo. 

E bisogna parlare ancora di un’altra importante iniziativa che intende rilanciare a livello internazionale l’immagine del museo (che rischiava di diventare un po’ troppo ingessata). Si tratta dell’esportazione di una bella rassegna di opere dell’Arte Povera, la maggior parte degli anni 60/70, che il 25 maggio si inaugurerà a Mosca al Mamm (Multimedia Art Museum Moscow). Sono una trentina di lavori di proprietà del Castello di Rivoli o in comodato (della Fondazione Crt per l’arte contemporanea) che rappresentano degnamente l’Italia nell’ambito di un programma ufficiale di scambio culturale fra i due paesi. È la prima mostra importante di questo gruppo in Russia. Gli artisti in mostra sono Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Paolini, Penone, Pistoletto, Zorio. 

FONTE: Francesco Poli (lastampa.it)

venerdì 20 maggio 2011

Eroi dell'arte contemporanea. La passerella a Torino

Nella Galleria d'arte moderna, una "parata" di artisti forti, impegnati, solitari e coraggiosi, che sognano di diventare portatori di valori sociali. Da Boltanski a Kiefer, Merz e Bourgeois


Anche l'arte contemporanea ha la sua "Resistenza". Fatta di artisti "partigiani" che scelgono gesti coraggiosi, interventi estremi, lavori impegnati, tutto col sogno intimo, a tratti visionario e utopistico, di trasformare l'opera in messaggio sociale, con un suo valore etico capace di evocare alternative possibili ad un vivere acre e tragico. Un'arte fatta di eroismi individuali, è quella che vuole raccontare la mostra "Eroi" che sotto la cura di Danilo Eccher si apre alla Galleria d'arte moderna e contemporanea dal 19 maggio al 9 ottobre. Una collettiva di personalità suggestive e dirompenti, da Christian Boltanski ad Anselm Kiefer, Mario Merz, Francesco Vezzoli, Jenny Saville, Louise Bourgeois, che fa leva sul Dna della grandiosità  e della magniloquenza dei lavori (una quarantina), in alcuni casi realizzati appositamente per l'evento. 

Per dirla con Danilo Eccher, "Questa mostra non vuole svolgere un'analisi sulla tematica dell'eroismo nell'arte contemporanea, non vuole declinare la complessità di un argomento in un coerente percorso di opere, è invece, più cinicamente, una parata di eroi; non è la ricerca di una comunità filosofica ma l'incrocio di personalità forti, di linguaggi autonomi, di caratteri distinti, è una sottile vicinanza di solitudini poiché unico ed egoista è il percorso dell'artista verso il mondo. E' soprattutto  -  insiste Eccher - l'insieme di alcune voci soliste che improvvisano una sorprendente coralità dalla quale emerge la domanda sull'attualità dell'eroe". Ad aprire la "parata" di eroi è la possente e austera scultura in acciaio di Thomas Schutte "Grosse Geister Nr.6", del 1997, all'ingresso della galleria, di una teatralità enigmatica e improbabile, pervasa di un'umanità che fa i conti con la propria debolezza. 

Si incontrano, quindi la poesia cosmica dell'impalpabile "Autoritratto di stelle" di Michelangelo Pistoletto, del 1973, e l'inquietante gabbia di teste di "Cell XX" di Louise Burgeois. Conturbanti le astrazioni liriche, gestuali, materiche e primitive di Sean Scully, presente con "Wall of light Zacatecas" e "Doric", così come quelle più liquide, vorticose, caotiche eppur eteree ed esotiche di Cy Twombly, in "Roma" del 1962. Imponente ed inquieto appare "Humbaba" di Anselm Kiefer, del 2009, ispirato al guardiano della foresta di cedri nell'antica mitologia numerica, creatura/fantasma che incombe sulla grande tela materica attraverso tracce di uno spirito in polvere. Liturgica, d'una sacralità feroce e "patetica" appare l'installazione di Hermann Nitsch che oscilla, come osserva Eccher, fra impulsi dionisiaci e ritualità cattoliche. Per poi lasciarsi sedurre dal coraggio pittorico, spietato e disincantato, di Jenny Saville nell'opera "Passage" del 2004-2005, che immortala la sessualità sospesa e irrisolta di una trans. 

E ancora più eroica è la fisicità performativa di Marina Abramovic nel video "the Hero" del 2001, dove l'artista esibisce se stessa nella sopportazione strema di ogni limite. Nello spazio undergroung project, incombono le lacrime e il sangue di un muro che cola sul pavimento, nell'installazione spettrale di Latifa Echakhch, e la morbosa casa-memorabilia immersa nel buio di Ilya ed Emilia Kabakov. Spietato è "Self-portrait" di Pawel Althamer, del 1993, che punta a raccontare il corpo più che l'artista, costruendo una figura di grasso, cera, materiali organici, capelli. Misticamente gioioso, al contrario, è "Autoritratto con Juventus e Torino" di Francesco Clemente, del 2010. 

Drammatico, il gioco sulla spiaggia di Tel Aviv che evoca il video di Sigalit Landau, "Barbed Huha" del 2000, con una donna che fa l'hula hoop con un cerchio di filo spinato. Con "Containers" del 2010 e "Children" del 2011, Christian Boltanski tesse una nostalgica parabola di eroi umili, vecchi e bambini, mentre Francesco Vezzoli rende omaggio a Maria Callas nella sua "Maria Callas played La Traviata 63 times", dove il volto di Maria Callas appare sessantatre volte incorniciato in un piccolo cerchio e sul quale compare un delicato, dolcissimo ricamo per delle brillanti lacrime. Ma eroico epilogo può essere anche l'appello ad un ritorno alla pittura vera e genuina di Georg Baselitz col gusto sapiente del colore steso sulla tela ad inseguire un immaginario figurativo, o la sequenza dei numeri di Fibonacci nella spirale di Mario Merz, nel tentativo estremo di indagare le dinamiche della natura.

Notizie utili  -  "Eroi", dal 19 maggio al 9 ottobre 2011, Gam  -  Galleria d'Arte moderna e contemporanea, via Magenta 31, Torino.
Orario: martedì - domenica 10-18, chiuso lunedì. 
Ingressi: € 7.50 ridotto € 6.00, gratuito ragazzi fino ai 18 anni 
Informazioni: tel. 011 4429518.
Catalogo: Allemandi. 

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

giovedì 19 maggio 2011

Il premio In/Arch ad Archiworld.tv

Il riconoscimento intitolato a Bruno Zevi e dedicato alla diffusione dell'architettura va alla web-tv di Scianca

Il premio In/Arch Bruno Zevi per la diffusione dell'architettura è andato a una webtv nata a Torino e fondata da Giorgio Scianca: Archiworld.tv. I premi In/Arch (Istituto nazionale di architettura) sono considerati gli Oscar italiani del settore. La premiazione si svolgerà a Roma martedì 24 maggio.
L'Inarch, l'Istituto Nazionale di Architettura, fu fondato nel 1959, da un'idea di Zevi. Nata nel 2005,Archiworld.tv ha prodotto 600 video e possiede un archivio di altri 2500, selezionati e pubblicati. Su Facebook, circa 32 mila fan. Nel suo cammino, ha incrociato spesso altre discipline artistiche. Soprattutto il cinema, che usa volentieri, nei suoi racconti, la professione di architetto. Questo in tutto il mondo e da sempre. Perché l'architetto è versatile, perché è figura intellettuale ma anche pratica.
Un anno fa, da archiworld.tv, e da un certosino lavoro di indagine, reperimento, catalogazione, è nato architects'BOOK, un data base, condiviso su Facebook, di film che si sfogliano come un album. «Noi vogliamo ballare sull'architettura», dice Scianca, parafrasando Frank Zappa. Ma come, mette il suo tanto faticosamente realizzato data base a disposizione di tutti? «La rete è condivisione, non esclusione».

Questa la motivazione del premio: «La giuria ha ritenuto che Archiworld.tv ha esplorato per anni il mondo dei video mettendo al centro l’architettura, la professione dell’architetto e la percezione che si ha di questa disciplina. Ha quindi contribuito alla diffusione della cultura architettonica servendosi dei nuovi mezzi di comunicazione al passo con un mondo che cambia velocemente».

FONTE: lastampa.it

martedì 17 maggio 2011

Ritratto di un genio da giovane


Una grande esposizione al Prado rivela il talento degli esordi di José de Ribera

«Lo Spagnoletto intingeva il suo pennello con il sangue di tutti i santi». Così, nel 1824, nel suo incompiuto Don Juan, Lord Byron descriveva l’arte di Jusepe (José) de Ribera, il grande pittore spagnolo (1591-1652) che visse e lavorò a Napoli. Erano passati due secoli, ma il pittore che amava ritrarre i più crudeli martirii e le più impietose rughe dei vecchi, ormai si era cucito addosso la fama di tenebroso e brutale. Quell’aura lugubre, alimentata anche dalla critica romantica, che vedeva l’arte barocca illuminata dai cupi bagliori dell’Inquisizione, è stata in parte rischiarata dalla grande retrospettiva che Nicola Spinosa e Alfonso Peréz Sánchez gli hanno dedicato a Capodimonte e al Prado nel 1992. Negli anni seguenti, studi e documenti inediti hanno però spianato la strada a una nuova importante mostra, da poco inaugurata al Prado, che scrive un sorprendente capitolo della vita del pittore.
La rassegna, dedicata esclusivamente al periodo compreso tra il 1610 e il 1622, analizza la prima attività di Ribera, arrivato da Valencia in Italia a soli diciannove anni. È noto che lo Spagnoletto, prima di trasferirsi definitivamente a Napoli nel 1616, aveva soggiornato cinque anni a Roma. Di quel periodo erano conosciuti i soli straordinari Cinque sensi, ritratti a mezzo busto di marcato realismo, con magnifici brani di natura morta in primo piano. Veri capolavori che furono in seguito copiati e venduti in tutta Europa. Dalla nuova mostra di Madrid nasce invece un pittore diverso, attento non solo alla rivoluzione caravaggesca, ma anche alle lezioni accademiche di Michelangelo, di Guido Reni e dei Carracci e al gusto di van Baburen, di Terbruggen e Valentin de Boulogne, i pittori nordici arrivati a Roma per seguire da vicino la seduzione del Merisi.
Accanto ai cicli dedicati agli Apostoli e ai già citati Sensi, ecco allora le figure di santi e filosofi tratti dal Nuovo Testamento, ritratti sempre a mezzo busto davanti a una tavola utilizzando colori e tratti morbidi e pastosi ben diversi rispetto al più noto e aspro Ribera napoletano. Per raggiungere quest’importante risultato, Javier Portús e José Milicua, curatori della mostra, si sono avvalsi del contributo dei più affermati critici dell’artista e hanno portato nella nuova ala del Prado 32 tele provenienti da musei e raccolte private di tutto il mondo. Uno sforzo enorme, se si considera che il museo stesso, che pure conserva decine di opere tarde di Ribera, ne ha esposta solo una, con l’intento di dare più forza critica alla rivelazione di questo giovane pittore, presentato per la prima volta in tutta la sua complessa e contraddittoria formazione romana. L’unico dipinto di proprietà del Prado è la Resurrezione di Lazzaro, acquistato dal museo nel 2001, ed è l’opera cardine su cui ruota tutta l’esposizione. Negato da una parte della critica fino a pochi anni orsono, grazie alla recente attribuzione a Ribera delle opere un tempo riferite al Maestro del Giudizio di Salomone, il catalogo dei dipinti giovanili dell’artista si è arricchito notevolmente, comprendendo non solo quest’opera ma anche altre grandi tele orizzontali di soggetto storico che si sapeva Ribera avesse realizzato a Roma. Mettendo a confronto le tele, tra cui appunto il celebre Giudizio di Salomone proveniente dalla Galleria Borghese, i superbi santi della Collezione Longhi e i già notiCinque sensi, i curatori hanno fatto emergere un Ribera inedito, la cui produzione si è ampliata di opere ritenute sinora dubbie o di diversa mano. Il percorso critico è comunque in evoluzione e non è dunque un caso se Javier Portús scrive in prefazione che il catalogo delle prime opere del maestro valenciano è un tema ancora caldo e avverte quindi di non stupirsi se le schede di Gianni Papi, Nicola Spinosa e Gabriele Finaldi, sono a volte in contrasto tra di loro sia per la cronologia che per l’analisi stilistica.
La mostra «Il giovane Ribera», Madrid, Museo Nacional del Prado, fino al 31 luglio. Catalogo Edizioni Museo Nacional del Prado, pp. 224, € 20
FONTE: Giovanna Poletti (corriere.it)

sabato 14 maggio 2011

Gio Ponti. Dal cucchiaio al grattacielo


Le «espressioni» di un lombardo che anticipò la globalizzazione

Mission impossible. Come comprimere una grande metropoli in un’unica mappa, quando ci vorrebbe un atlante. Design, architettura, ceramica, decoro di interni, grafica e riviste sotto lo stesso tetto, da un’unica mano. Mai specializzato né settoriale, libero di spaziare traducendo materia poetica in prodotti di serie. Inaugura oggi alla Triennale di Milano «Espressioni di Gio Ponti», curata da Germano Celant, in collaborazione con Gio Ponti Archives e gli Eredi di Gio Ponti, una mostra che nasce da un profondo (ed eroico) lavoro d’archivio, per «catturare » uno dei maestri del Novecento nell’immensa rete di materiale che ha prodotto.
«Per me è stato un viaggio, un’incredibile avventura — racconta Celant —. Ed è stato bello perdersi in questo labirinto, in questo arcipelago d’arte». Nella missione impossibile, serviva una chiave interpretativa. Celant ha lavorato sulle emergenze di un iceberg immaginario, esaltandone imponenza e versatilità. Una mostra che riflette il carattere di caleidoscopio progettuale, ma soprattutto culturale, che ha segnato il dinamismo della vita di Ponti. Perché era un tuttologo, uno capace di «fà tuttcoss», come si direbbe nel dialetto a lui più caro. Architetto multiforme, capace di disegnare posate, navi transoceaniche o alzare grattacieli come il Pirelli di cui ricorrono i 60 anni e dove, fino al 31 luglio, si terrà la mostra parallela «Il fascino della ceramica».
In un’epoca in cui tutti invocano il rinnovamento, torna più che mai d’attualità l’architetto che ne ha fatto uno stile di vita. Essere attuali a tutti i costi. «Tradizione è fare cose nuove bene come cinquecento anni fa», ripeteva spesso. Quasi una metafora dei giorni d’oggi. Una continua ricerca, con un unico punto fermo. C’è l’arte, poi tutto il resto. Ogni mostra è un racconto e come tale deve avere un incipit. Qui si parte da leggerezza e colore. Una Superleggera e tutto il campionario delle sedie pontiane piovono dal cielo galleggiando nell’aria sopra le 1778 piastrelle in dodici colori diversi del pavimento progettato per gli uffici del giornale Salzburger Nachrichten nel ’76. Ma questo è un percorso che si può leggere dalla A alla Z, come mescolando le carte. Perché «l’attraversamento di Ponti» non può avere una forma o un’unica direzione. «È come se queste sale non riuscissero a contenerlo: qui ognuno può cercare il suo filo », spiega Celant.
Duecentocinquanta pezzi (solo otto sono stati ricreati al Politecnico, il resto è originale) in mille metri quadri di esposizione. Ci sono gli schizzi a mano, per Venini o Ginori, i taccuini di studio, non i progetti tecnici. Tracce delle sue collaborazioni con Piero Fornasetti e Fausto Melotti, il bianco e nero da due piccoli display, davanti alla ricostruzione del suo studio, dove scorrono come in un film interviste ed immagini. C’è il mobile «Positivo Negativo», trionfo del superfluo, dato che non ci si può mettere dentro niente: apri un’anta e tutto è bianco, la chiudi e tutto diventa marrone. Il tavolo «di stoffa» per casa Trunfio del ’51, la macchina del caffè La Cornuta che luccica come se corresse ancora l’anno 1949. I primi numeri di Domus e di Stile, i suoi libri, anche quelli non scritti.
«Ponti si era preso la libertà di essere curioso», spiega Celant. Difficile rapportarlo alle archi-star di oggi. «Ha vissuto un’altra epoca e proprio per questo la sua attenzione alla comunicazione lo rende così moderno — racconta il curatore —. La sua attitudine a lavorare sulle contraddizioni di un linguaggio per immagini che poteva affidarsi a qualsiasi cosa, nave o piatto, sedia o grattacielo, hotel o poesia, gli ha permesso un approccio liberatorio che nel contesto di una cultura monolitica è risultato dirompente e sconvolgente», aggiunge. E così scorrendo le opere si coglie come se Ponti si divertisse a giocare a scardinare ogni giorno con un nuovo materiale l’ordine assoluto che dominava l’arte del Novecento. Come a mettere disordine in una camera troppo perfetta e sempre uguale a se stessa.
Ponti era un architetto globale, capace di lasciare il segno a Hong Kong, come a Baghdad, New York o Caracas. Ma poi c’era Milano, la città dove è nato, cresciuto e che ha lasciato nel settembre del ’79. Il centro nevralgico della sua produzione. «Milano è il più recente fenomeno continuativo della storia d’Italia», diceva Ponti. Nella sala, le miniature dei grattacieli chiuse in una teca restano un simbolo tangibile di volumetria pura, di una Milano che guarda in alto e, salendo verso il cielo, gonfia il petto sentendosi città moderna. Ma il cielo della stanza non può rendere l’impatto totale di Ponti su Milano. Per questo, il filo prosegue fuori dalla Triennale. Come seguendo i sassolini che col tempo si è tolto dalle tasche, sono stati pensati una serie di itinerari ad hoc (al sabato) tra le sue opere per le strade della città. Ponti ripeteva spesso «mi è venuta un’idea», mai «ho creato un’idea». Inventare vuol dire trovare e Gio Ponti non ha mai smesso di cercare, (sempre) giovane esploratore, nonostante i capelli bianchi.
FONTE: Stefano Landi (corriere.it)

martedì 10 maggio 2011

Dall'Unità d'Italia a Kubrick. A Reggio Emilia gli artisti del clic

Al via "Fotografia Europea": 300 mostre e 60 eventi all'insegna di una riflessione intima e lontana dagli stereotipi dell'Italia nel 150° anniversario dell'Unità. Dai papi alle architetture, dal paesaggio alla moda. Con un focus inedito sul regista di "Arancia meccanica"


Papi, tricolori, grand tour di un'Italia non convenzionale. Tra un'immagine poco stereotipata del Bel paese e una riflessione sulla scena della fotografia italiana, anche la grande kermesse espositiva di "Fotografia Europea" giunta alla sesta edizione dal 6 maggio al 12 giugno articolata in varie sedi cittadine (col quartier generale nei Chiostrio di San Pietro), sposa l'anniversario del 150° dell'Unità d'Italia, all'insegna di "Verde, bianco, rosso. Una fotografia dell'Italia", sotto la puntuale e scaltra direzione artistica di Elio Grazioli. 

E il programma tiene testa alla ricorrenza con un'overdose di eventi, tra trecento mostre complessive e soprattutto un fitto calendario di sessanta appuntamenti gratuiti che si concentrano nelle tre giornate inaugurali, impedibili tra incontri, spettacoli live, aperture straordinarie, come il padiglione Lombroso, all'interno del complesso del San Lazzaro, fresco di ristrutturazione, destinato ad ospitare il nuovo Museo della Psichiatria (per fare qualche esempio: conferenze di Enzo Bianchi, Luisa Muraro, Carlo Galli, Roberto Esposito, Alberto Melloni, Gian Antonio Stella, Marco Belpoliti, Andrea Riccardi, e serate con l'Aterballetto e l'Orchestra popolare italiana con Ambrogio Sparagna, Peppe Servillo e Angela Baraldi, oltre a dj set di Andy Butler e di Nicola Conte). 


Tra le rassegne istituzionali, spicca "bianco papa" dedicata all'insolito tema dell'iconografia papale e alla sua evoluzione dalla presa di Porta Pia fino ai nostri giorni. Se nel cortile interno dei Chiostri, sfilano cento foto del repertorio Treccani sui pontefici, le sale interne, splendide nei loro cicli affrescati fanno da sfondo alla sezione "Papa Giovanni e Hank Walker. Contrappunto per foto di Life e manoscritti Roncalli" dove s'incontreranno gli scatti del famoso fotografo Walker (1921-1996), che nel 1962, nei giorni dell'apertura del concilio Vaticano II, ritrasse papa Giovanni XXIII. 

Quattro sono, poi, i maestri italiani invitati a raccontare la fotografia italiana. Paolo Roversi, classe '47 di Ravenna, legato alla moda, che nel suo estro e sensibilità perde l'euforia di estremo glamour e edonismo, per riconvertirsi in un'analisi poetica sulla bellezza e la femminilità. Il milanese Davide Mosconi (scomparso nel 2002), ha fatto della fotografia un virtuosismo tecnico di poetica surreale ed enigmatica, proprio come quando ha tentato l'impossibile, immortalare materiali e luoghi sfuggenti alla presa dell'obiettivo, come la polvere, il cielo stellato, l'aria stessa. E la straordinaria serie "Disegnare l'aria" restituisce la sua impresa, con  immagini di oggetti lanciati in aria e fotografati mentre disegnano strane composizioni sullo sfondo del cielo. 

Il milanese Mario Dondero (classe '28), tra i più singolari maestri di fotogiornalismo, che strappano sguardi emotivi su realtà dal forte impatto sociale accanto alla malinconia inquieta di un impegno civile e politico. Paola Di Bello, che propone la serie "Rear Window", un reportage sperimentale di paesaggi urbani ripresi dalle finestre di abitazioni di cittadini dove si sovrappongono nella stessa immagine il giorno e la notte. E per l'occasione, il suo sguardo audace si è spinto negli scenari della stessa Reggio Emilia. 

Evento non da poco è l'omaggio a "Stanley Kubrick 1945-50. Cinque anni da grande fotografo" che sotto la cura di Rainer Crone arriva a Palazzo Magnani dal 7 maggio al 24 luglio. I cinque anni da reporter del regista americano vengono raccontati dagli scatti dedicati, tra gli altri, al pugile Rocky Graziano. Interessante, ancora, è Grand Tour. La continuité d'un regard, omaggio a François Halard, protagonista tra i più affermati della fotografia di architetture. Il suo è un viaggio intimo e segreto dell'Italia, assaporando antichità classiche accatastate, curiosando nei depositi di Cinecittà, entrando nelle ville romane e siciliane e in quelle palladiane per poi lasciarsi affascinare dalle case di artisti come Casa Malaparte a Capri, Carlo Mollino a Torino, Cy Twombly a Gaeta e Luigi Ghirri a Roncocesi. Assolo importante, quello dell'artista coreana Hyun-Jin Kwak con il lavoro "Girls In Uniform", nato nel 2003 e sviluppato tra la Svezia, il Sud Corea e l'Italia. 

Progetto speciale riguarda anche Nino Migliori, uno dei maggiori fotografi italiani del secondo dopoguerra, fortemente impegnato sul terreno della sperimentazione linguistica e del trattamento delle immagini. E non mancano iniziative particolari, come Trilogia cromatica, a cura di Scuole e Nidi d'Infanzia  -  Istituzione del Comune di Reggio Emilia e Reggio Children, che presenta le fotografie degli alunni, La Giovine Italia, collettiva di giovani artisti impegnati a raccontare una nazione lontana dalla retorica, "Vedute d'Italia. Fotografie di Olivo Barbieri. Nunzio Battaglia, Marcello Galvani e Luciano Romano", autori provenienti dalle collezioni del MAXXIdi Roma, "Terre a fuoco", racconto per immagini di quattro maestri Franco Fontana, Michael Kenna, Ferdinando Scianna e Stanislao Farri.

Notizie utili  -  "Fotografia Europea 2011. Verde, Bianco, Rosso. Una fotografia dell'Italia", dal 6 maggio al 12 giugno 2011, Reggio Emilia, sedi varie. Giornate inaugurali: 6 - 8 maggio.
Tutte le informazioni su www.fotografiaeuropea.it 2
Catalogo: Electa.

FONTE: Laura Larcan (republica.it)

lunedì 2 maggio 2011

Quattordici opere per scoprire il Quattrocento di Benozzo Gozzoli

L’esposizione, organizzata in collaborazione con l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, fa parte del ciclo «La città degli Uffizi», felice idea del Direttore della Galleria fiorentina Antonio Natali: una serie di mostre che intende portare a una più diffusa conoscenza le opere dei tanti artisti nati nella provincia fiorentina o che con i luoghi intorno a Firenze hanno uno speciale legame. 

E così dopo «Il Cigoli e i suoi amici» nel 2008, «L’Oratorio di Santa Caterina all’Antella» nel 2009 e «I Ghirlandaio. Una famiglia di pittori del Rinascimento» e «Beato Angelico a Pontassieve» nel 2010, solo per citare le rassegne in provincia di Firenze, arriva oggi «Benozzo Gozzoli e Cosimo Rosselli nelle terre di Castelfiorentino. Pittura devozionale in Valdelsa». 

Questa edizione della «Città degli Uffizi» è anche un viaggio alla riscoperta del Rinascimento in Toscana con un unico biglietto. Questa la grande novità proposta dal Museo Benozzo Gozzoli di Castelfiorentino e dalla Provincia di Firenze in occasione della mostra: chi visiterà il Museo Be-Go avrà l’accesso ridotto al percorso museale di Palazzo Medici Riccardi, che ospita «La Cavalcata dei Magi», probabilmente il più celebre capolavoro di Benozzo Gozzoli. Quasi una quadratura del cerchio nell’avvicinarsi alla pittura toscana del Quattrocento.

FONTE: lastampa.it