domenica 30 settembre 2012

«Aria» nuova a Palazzo Roverella


Il centro espositivo di Rovigo, ora gestito dalla Fondazione Cariparo, presenta la programmazione triennale: si parte a fine ottobre con una mostra dedicata all'illustrazione dell'etereo elemento

Rovigo. Partirà a fine ottobre la nuova stagione espositiva diPalazzo Roverella sotto il segno di una nuova gestione, come stabilito dalla convenzione stipulata tra la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e il Comune di Rovigo. In base a quanto stabilito dall’accordo decennale, la Fondazione si fa carico della programmazione artistica del Palazzo, dopo aver già sostenuto, con uno stanziamento di oltre 300mila euro, la realizzazione di lavori urgenti di manutenzione del Palazzo, nell’ottica di migliorare l’offerta di servizi ai visitatori.
«La presa in gestione del Palazzo è un’operazione significativa, poiché avviene in un momento di contrazione generalizzata delle risorse, spiega Antonio Finotti, presidente della Fondazione.Siamo tuttavia convinti della necessità di rafforzare l’impegno sul fronte della promozione, gestione e organizzazione di progetti culturali. Ciò significa creare benefici per l’intero territorio. La programmazione degli eventi espositivi, condivisa con il Comune e l’Accademia dei Concordi, si muoverà lungo due direttrici: da un lato verrà ripreso il filone dell’illustrazione per l’infanzia, già proposto negli anni passati con “Pinocchio” e “Il gatto con gli stivali”; dall’altro verrà ulteriormente indagata la pittura italiana tra fine 800 e inizio 900».
Pianificata l’attività espositiva del primo triennio: oltre ad «Aria» (dal prossimo 27 ottobre al 13 gennaio 2013), mostra dedicata all’illustrazione, è in programma «La Maison Goupil e l’Italia. Il successo degli italiani a Parigi negli anni dell’Impressionismo» (dal 22 febbraio al 23 giugno 2013), a cura di Paolo Serafini. Attraverso l’analisi degli inventari, dei registri e dei documenti conservati presso il Musée Goupil di Bordeaux e il Getty Research Institute di Los Angeles, saranno ricostruite le vicende storiche e la fortuna della galleria francese fondata nel 1829 da Adolphe Goupil insieme a Henry Ritner e degli artisti italiani, un centinaio circa, che vi gravitarono a partire dagli anni ’70 dell'Ottocento. Primo fra tutti Giuseppe De Nittis, che visitò Parigi per la prima volta nel 1867, attraverso il quale molti artisti italiani giunsero nella capitale francese andando incontro al successo. In mostra anche le opere di ambientazione orientaleggiante di Alberto Pasini, i ritratti di grande formato di Giovanni Boldini, tra cui quello, splendido, di Marthe Regnier, «Il piccolo scolaro» di Francesco Paolo Michetti, proveniente dal Musée d’Orsay, insieme ad alcuni dipinti della serie «Saltimbanchi». Oltre a quelli di Antonio Mancini, Edoardo Dalbono, Domenico Morelli, solo per citarne alcuni.
Seguirà, da febbraio a giugno 2014, una mostra a cura di Giandomenico Romanelli, dedicata «all’ossessione nordica», ossia all’influenza della pittura nordeuropea sugli artisti italiani, prevalentemente veneti e lombardi, che parteciparono alle prime edizioni della Biennale di Venezia. Da febbraio a giugno 2015, sarà la volta di «Lega, Fattori e Signorini: lavoro e vita quotidiana nella pittura italiana dell’Ottocento».

La Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in base a quanto stabilito dalla convenzione, provvederà anche alla valorizzazione della Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi e delSeminario Vescovile. Si tratta per lo più di opere di arte veneta che vanno dal XV al XVIII secolo, tra cui si segnalano «Cristo Portacroce» e «Madonna col Bambino» di Giovanni Bellini, «Madonna col Bambino tra i santi Gerolamo ed Elena» di Palma il Vecchio, «Madonna col Bambino e Santi» di Dosso Dossi, «Ritratto di giovinetto vestito all’orientale» di Fra Galgario, «Autoritratto» di Rosalba Carriera, «San Giovanni Battista» di Giambattista Piazzetta, «Ritratto di Antonio Riccobono» di Giambattista Tiepolo.
L’apertura della Pinacoteca sarà garantita in tutti i periodi dell’anno, assicurando una costante fruizione delle opere e promuovendone la conoscenza attraverso una selezione «ragionata», sempre diversa. Già con la mostra «Aria» il pubblico potrà ammirare 80 importanti dipinti provenienti dalla collezione permanente dell’Accademia dei Concordi e del Seminario Vescovile.

FONTE: Anna Saba Didonato (ilgiornaledellarte.it)

sabato 29 settembre 2012

Sabato e domenica sono le Giornate europee del patrimonio



Varie città. Anche quest'anno, con lo slogan «L’Italia tesoro d’Europa», si celebrano nella Penisola le Giornate Europee del Patrimonio 2012, programmate in date diverse a nei 50 Paesi che hanno aderito all'iniziativa: da noi si tengono il 29 e il 30 settembre.

Obiettivi delle Giornate Europee sono sensibilizzare i cittadini della comunità alla ricchezza e alla diversità culturale dell’Europa, nonché alla necessità di proteggere il patrimonio culturale, attraverso l’organizzazione di manifestazioni  che mettano in luce il saper fare, le tradizioni locali, l’architettura e gli oggetti d’arte, ma anche la presentazione di beni culturali inediti e l'apertura straordinaria di edifici storici.
Una vera «festa europea» alla  quale il Mibac partecipa con oltre 1.500 appuntamenti, organizzati dai propri Istituti centrali e territoriali che, per l’occasione, aprono gratuitamente al pubblico tutti i luoghi d’arte statali, comprendenti il patrimonio archeologico, artistico e storico, architettonico, archivistico e librario, cinematografico, teatrale e musicale. A questi si affiancano i luoghi d’arte appartenenti ad altre realtà (istituzioni culturali pubbliche e private, enti locali) che hanno aderito alla manifestazione. In particolare, la Presidenza della Repubblica apre le porte del Palazzo del Quirinale (dalle ore 8.30 alle ore 12 di domenica 30 settembre; accesso gratuito).  In alcuni casi, come per il MaXXI a Roma, l'ingresso non è gratuito, ma ridotto. Il Colosseo, il Foro Romano e il Palatino invece, partecipano alle Giornate del Patrimonio con un ingresso a 7,5 euro valido per i due giorni.
L'elenco completo degli eventi in calendario (oltre alle aperture straordinarie, mostre, convegni, laboratori didattici, visite guidate e concerti), è consultabile cliccando sul sito:


FONTE: ilgiornaledellarte.it



venerdì 28 settembre 2012

L’arte di De Chirico in mostra a Bergamo



“Omaggio a De Chirico” è l’esposizione dedicata al pittore italiano scomparso nel 1978, che si terrà a Bergamo presso il Palazzo de La Fondazione Credito Bergamasco, dal 29 settembre al 14 ottobre 2012.L’ingresso è libero.

Undici i dipinti selezionati, con una datazione compresa tra il 1923 e il 1969, provenienti tutti da sedi privatee generalmente non fruibili da un vasto pubblico. Le tele - che documentano le fasi che vanno dal “ritorno all’ordine” degli anni venti del Novecento fino alla tarda stagione della “neo-metafisica” - illustrano un ventaglio di temi e di soggetti in grado di presentare l’eccentrica personalità dell’inventore della pittura Metafisica.

Oltre a un intenso "Busto di donna in verde" (1924), una sorta di omaggio al grande pittore del realismo francese Gustave Courbet, e a due autoritratti, rispettivamente del 1931 e del 1953, i visitatori potranno ammirare la tavola del 1928 intitolata "Conversazione" e la straordinaria veduta di Venezia, dipinta tra il 1950-1955.

FONTE: lospettacolo.it

mercoledì 26 settembre 2012

Terremoto in Abruzzo, mezzo miliardo di euro per il patrimonio culturale


I ministri Ornaghi e Barca a L'Aquila per la presentazione del piano strategico fino al 2021: 495 interventi sui beni culturali della regione, 127 riguardano il capoluogo

L'Aquila. Stanziati 525 milioni di euro fino al 2021 per recuperare monumenti e beni culturali de L'Aquila e nei centri distrutti dal terremoto del 2009. «Uno sforzo gigantesco ma necessario», ha detto il ministro per i Beni culturali Lorenzo Ornaghi insieme con il collega con delega alla Coesione territoriale, Fabrizio Barca, in occasione della presentazione delprogramma strategico per i prossimi nove anni predisposto dalla Direzione regionale dei beni culturali e paesaggistici per l'Abruzzo, guidata da Fabrizio Magani.
Sui fondi necessari alla copertura degli interventi nel capoluogo abruzzese (s'inizia con il Castello dell'Aquila, il Duomo di San Massimo, Santa Maria Paganica, San Pietro, San Silvestro e Sant'Agostino) il ministro Barca ha spiegato che nel decreto 39 del 2009 sul terremoto sono già previste le somme necessarie: «In quel fondo ci sono 2,5 miliardi di residuo, un grosso ammontare di risorse che ci dà la tranquillità e potrà essere usato anche per espropri e contributo di autonoma sistemazione. Quindi non ci sono problemi sulle risorse», ha detto.
Per il triennio 2013-2015 saranno impegnati 206 milioni, per il 2016-2018 altri 159 e per il 2019-2021, ulteriori 158. Gli interventi sui beni culturali, in tutta la zona del «cratere», saranno 485 di cui 127 riguardano L'Aquila.
La decisione del governo Monti, con l'Opcm 4013 del 23 marzo 2012 («Misure urgenti per la semplificazione, il rigore e il superamento dell'emergenza determinata nella Regione Abruzzo a seguito del sisma del 6 aprile 2009»), ha potenziato il ruolo dei soggetti istituzionali impegnati nel processo di ricostruzione, chiudendo definitivamente la fase emergenziale e ha finalmente posto in primo piano l'inderogabilità di «valutare priorità e bisogni del restauro del patrimonio culturale danneggiato».

FONTE: Tina Lepri (ilgiornaledellarte.com)

lunedì 24 settembre 2012

L’avanguardia dei conservatori


Alla Tate Britain si riunisce la Confraternita dei preraffaelliti

Londra. È spesso difficile, se non impossibile, datare con precisione l’inizio di un movimento. Invece, le date di fondazione e lancio della Confraternita dei preraffaelliti e il suo programma artistico sono note con estrema esattezza: venne formata nel settembre del 1848 in Gower Street, a Londra, da John Everett Millais, Dante Gabriel Rossetti e William Holman Hunt, ai quali presto si aggregarono James Collinson, F.G. Stephens, Thomas Woolner e William Michael Rossetti. I loro lavori furono esposti per la prima volta nel marzo successivo alla Royal Academy, mentre ora la mostra «Preraffaelliti. Avanguardia vittoriana» li celebra alla Tate Britain dal 12 settembre al 13 gennaio.
Nonostante la partenza enfatica (le loro opere furono immediatamente e decisamente denigrate da molti critici fino a quando John Ruskin non solo le difese, ma le legittimò e le consacrò), come tanti «movimenti», il Preraffaellitismo resta difficile da definire. I fondatori erano piuttosto vaghi rispetto ai loro obiettivi e la confraternita iniziò a disgregarsi già dopo 18 mesi dalla sua fondazione. Intorno alla metà degli anni Cinquanta dell'Ottocento gli artisti originari se ne erano andati ciascuno per la propria strada. Tuttavia, i preraffaelliti riuscirono a stabilire un linguaggio visivo, al principio sostanzialmente privo di ombre e con una spoglia semplicità di gesto, in seguito dai colori brillanti da dettagli riprodotti con accanimento. Il movimento rivoluzionò l’arte religiosa rispolverando il linguaggio medievale per simbolismo e tipologia, rappresentando personaggi biblici e santi come gente «qualunque» e introducendo soggetti tratti dalla vita contemporanea, spesso con una dimensione sociale o morale.
Lo stile e i soggetti preraffaelliti arrivarono, in una varietà di modi e tecniche, a dominare la arti per il resto del XIX secolo e gli inizi del XX. Una seconda generazione di artisti, che si formò intorno a Dante Gabriel Rossetti, portò il Preraffaellitismo in una nuova direzione con William Morris ed Edward Burne-Jones. Il movimento «Arts and Crafts», il Movimento Estetico e il Simbolismo furono diretti discendenti del Preraffaellitismo. La messa in evidenza e la condanna dei mali dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e dell’immoralità che essi esprimevano erano basate sulla nostalgica nozione di un passato migliore e traevano sostentamento dai sempre più potenti e reazionari movimenti di riflusso cattolico e gotico nella Chiesa d’Inghilterra. L’arte preraffaellita fu derisa dai modernisti che dominarono la cultura occidentale d’élite dalla fine della prima guerra mondiale alla fine degli anni Sessanta, quando, principalmente grazie a una serie di mostre concepite da Mary Bennett, responsabile per l’arte britannica alla Walker Art Gallery di Liverpool, i preraffaelliti vennero riabilitati, fino all’enciclopedica mostra del 1984 alla Tate Gallery. L’attuale mostra alla Tate Britain è considerevolmente più piccola con 150 opere in confronto alle 250 del 1984 e si propone di reinventare il Movimento preraffaellita come «avanguardia», enfatizzando le idee politiche di Morris (in realtà il suo «socialismo» non attaccò mai l’ordine sociale di base) e l’opera socialmente impegnata del pittore.

FONTE: ilgiornaledellarte.com

domenica 23 settembre 2012

L'arte degli anni '30 una luce oltre il regime


L'esposizione, che sarà aperta dal 22 settembre al 27 gennaio, racconta un decennio cruciale

Il più inquietante? Quei 'Quattro elementi' di Adolf Ziegler, che Hitler teneva appeso sul caminetto nella sua residenza ufficiale di Monaco. «Un quadro nazista che esprime in pieno i concetti della pura razza ariana, per la prima volta esposto in Italia», spiega Antonello Negri, con Silvia Bignami, Paolo Rusconi e Giorgio Zanchetti, curatore della mostra 'Anni Trenta, arti in Italia oltre il fascismo' .

Professore, perché la scelta di questo decennio cruciale?
«Abbiamo deciso di affrontare un periodo relativamente trascurato proprio in quanto legato ai regimi nel nostro Paese e in Europa, mentre Susanna Ragionieri si è occupata della sezione fiorentina».
Con quale obiettivo?
«Assumere l’ottica degli anni Trenta, capire come i giornalisti, i critici di allora guardavano l’arte italiana».

E come la guardavano?
«Dividendola in centri artistici: Milano (legata all’Europa e a Parigi), Roma e il suo realismo magico e purista, Firenze, raffinata e Torino, che guardava alla Francia».

Novantasei dipinti, 17 sculture, 20 oggetti di design: come avete studiato il percorso?
«Le prime due sale sono dedicate appunto ai centri artistici, proponendo opere molto conosciute negli anni Trenta, esposte alle Biennali di Venezia o alle Quadriennali di Roma, caratterizzando ciascuno per una tendenza di stile o di gusto: il gruppo di Milano, con le figure dominanti di Sironi, Martini e Carrà e protagonisti del novecentismo in tutte le sue sfaccettature come Wildt, Tosi, Funi; Firenze con Soffici, Rosai, Lega e Viani; Roma, divisa tra classicismi e realismi (Donghi, Carena, Ceracchini); la Torino di Casorati, che guarda anche alla Francia (Chessa, Menzio, Paulucci, Mori)».

Segue la sezione dedicata ai giovani artisti: come hanno rinnovato l’arte italiana?
«Anche in negativo, nel senso che facevano una pittura che usciva dai canoni stilistici del naturalismo: Guttuso, Pirandello, Maraini, Sassu, Prampolini, considerati 'degenerati' dal regime».

Quindi l’esposizione diventa decisamente più tematica.
«Sì: la sezione 'artisti in viaggio' propone capolavori di De Chirico, De Pisis, Tozzi, quella dedicata all’arte pubblica ha come maestro-simbolo Mario Sironi. E poi spazio ai mezzi di comunicazione rivoluzionari come la radio, il cinema, le riviste illustrate, e fino alla riproduzione industriale degli oggetti all’insegna di un design da made in Italy».

Da non perdere? 
«La 'Donna al sole' di Arturo Martini, e 'Donna al caffè' di Antonio Donghi (immagine-copertina della mostra), ma anche il 'Figliol prodigo' di Alberto Savinio e le 'Zingare' di Massimo Campigli, la 'Piovra' di Scipione e i 'Buoi' di Viani, l’'Amaca' di Felice Carena e il 'Montale' di Peyron, i 'Giovani in riva al mare' di Gentilini e la 'Statua naufragata' di Nathan, lo 'Schermidore' di Del Bon e i 'Giocatori di polo' di Birolli, oltre a dipinti alle due figure di Fontana e le sculture di Ghiringhelli e Radice».

E la sua opera preferita?
«Il 'Soldatino francese' di De Pisis accanto al ritratto che Levi fece del maestro. Un accostamento felice».

FONTE: Letizia Cini (qn.quotidiano.net)

sabato 22 settembre 2012

SAVE THE DATE - FRANCESCO GUARDI (1712 - 1793)



La formazione di Francesco Guardi avviene all’interno di una modesta bottega a conduzione familiare, dove tutti sono pittori, dal padre Domenico ai fratelli Antonio e Nicolò. Nessuno sarà in grado di raggiungere in vita, se non il successo, almeno una certa agiatezza. Dopo la morte nel 1793, su Francesco Guardi cade l’oblio.
La sua riscoperta avviene in Francia alla metà dell’Ottocento, assieme alla generale rivalutazione del rococò. Il successo è improvviso quanto straordinario, tanto da sovvertire agli occhi dei critici e dei collezionisti il consolidato rapporto gerarchico nei confronti di Canaletto. Non a caso Francesco Guardi sarà il primo artista veneziano del Settecento ad avere una propria monografia di valore scientifico.

Negli anni successivi si susseguono i contributi e scoppiano le polemiche: è la famosa querelle guardesca che culmina con la celebre mostra curata da Pietro Zampetti a Palazzo Grassi nel 1965, dove il dibattito sulla distinzione delle opere eseguite da Francesco e dal fratello maggiore Antonio tocca il suo vertice. Da allora Francesco Guardi è diventato una presenza stabile nel pantheon dell’arte veneziana, che al successo presso la critica coniuga quello del pubblico e dei collezionisti, come testimoniano le recenti quotazioni raggiunte da alcuni dei suoi dipinti, quasi dei record per la pittura antica.

La mostra

La prima parte della mostra è incentrata sulla produzione di opere di figura, in particolare quelle scene di vita contemporanea ispirate alla pittura di costume in cui allora primeggiava Pietro Longhi. Si tratta del Ridotto e del Parlatorio delle monache di San Zaccaria ora a Ca’ Rezzonico – Museo del Settecento veneziano, vere e proprie immagini simbolo del Settecento veneziano, messe a confronto con un dipinto finora mai presentato al pubblico come il Ridotto Rothschild. Accanto a queste opere profane Francesco Guardi realizza, lungo tutto l’arco della
sua carriera, numerosi dipinti sacri. Una produzione spesso discontinua, che in alcuni casi però tocca valori esecutivi di alto livello, quale, tra le opere presenti in mostra, il Miracolo di san Gonzalo del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Solo verso i quarant’anni, e con alle spalle una non esaltante carriera di figurista, Guardi comincia a realizzare le prime vedute, probabilmente nel tentativo di agganciare il lucroso mercato dei visitatori stranieri, orfano in quegli anni di Canaletto, allora trasferitosi in Inghilterra.

Non è nota con certezza la data d’inizio di questi lavori, forse attorno al 1755. Si tratta di dipinti ancora acerbi, che ricalcano le composizioni di Canaletto e Marieschi e dove la stesura pittorica è fluida e controllata, ancora lontana da quella frizzante e stenografica che lo renderà celebre. Dal punto di vista filologico si tratta della sezione forse più interessante della mostra che consente di confrontare un cospicuo numero di opere mai viste assieme e quindi di verificare le proposte cronologiche fin qui avanzate dagli studi. Questa fase sperimentale, che si può circoscrivere in poco più di un decennio, è chiusa da dipinti quali la Piazza di San Marco della National Gallery di Londra oppure nel grande Bacino di San Marco del Metropolitan Museum di New York dove la sua vena singolare emerge nelle figure costruite con spumeggianti impasti di colore che rivelano un timbro cromatico vivacissimo.

Si è voluto riunire in un gruppo a se stante i paesaggi ed i capricci, seppure siano collocabili lungo tutto il suo iter professionale, così da evidenziare la sua originalità in questo campo rispetto agli altri maestri veneti. Ancora una volta la sua fonte di ispirazione è data da incisioni o dipinti altrui che il suo occhio, simile alla lente distorta di un caleidoscopio, rielabora, presentando all’osservatore composizioni divenute originali e autonome, rese uniche da
valori esecutivi di straordinaria delicatezza. È il caso dei grandi paesaggi dell’Ermitage di San Pietroburgo e del Museo di Worms dove l’elemento naturale è trasfigurato da vibranti e irreali effetti luministici. Diverso è il caso
dei Capricci che per definizione propongono nello stesso quadro l’accostamento di luoghi concreti e di fantasia, di architetture antiche e moderne. Si tratta di un genere squisitamente settecentesco, che sembra nato per assecondare l’immaginazione del grande pittore. Veri e propri capolavori di questo campo sono i due grandi Paesaggi fantastici del Metropolitan Museum di New York, dove tutti questi elementi sono riuniti a comporre un insieme improbabile quanto affascinante.

In occasione del terzo centenario della nascita di Francesco Guardi (1712 – 2012), la Fondazione Musei Civici di Venezia dedica un’ampia retrospettiva che testimonia – con una ricchezza di prestiti mai vista in precedenza e con opere in alcuni casi per la prima volta esposte insieme - la lunga e complessa parabola artistica di uno degli ultimi grandi maestri della pittura veneta.

Informazioni
generali
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Sede
Museo Correr
Piazza San Marco, Venezia
Apertura al pubblico
29 settembre 2012
6 gennaio 2013
Orari
Tutti i giorni dalle 10.00 alle 19.00 (biglietteria 10.00-18.00)
Chiuso 25 dicembre e 1 gennaio
Biglietti
Intero: € 12,00 (promozione 1° mese, ridotto € 10,00*)
Ridotto: € 10,00
ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25 anni; cittadini over 65; personale del Ministero per i Beni
e le Attività Culturali;
Ridotto speciale: € 9,00
titolari di MUVE Friend Card; titolari di Carta Rolling Venice; titolari Carta Giovani; possessori di Museum Pass o biglietto Piazza San Marco (non gratuito); possessori di Venice Card Adult e Junior (acquistabile solo presso Museo Correr e Palazzo Ducale)
Ridotto scuole:€ 5,00
la scuola deve presentare lista su carta intestata dell’istituto
Gratuito
portatori di handicap con accompagnatore; guide autorizzate; interpreti turistici che accompagnino gruppi; accompagnatori (max. 2) di gruppi di ragazzi o studenti; accompagnatori (max. 1) di gruppi di adulti; Partner ordinari MUVE

Prenotazioni
call center
+39 0418624101
(dall’Italia e dall’estero)
www.mostraguardi.it
correr.visitmuve.it
Informazioni
correr.visitmuve.it
info@fmcvenezia.it
call center 0418624101

FONTE: FMCVenezia

venerdì 21 settembre 2012

Donne, arlecchini, guerre e Minotauri. In mostra tutto l'universo Picasso



A Milano, a Palazzo Reale, una grande esposizione ripercorre l'evoluzione dell'opera picassiana dal 1900 al 1972: 250 lavori della collezione del Museo nazionale Picasso di Parigi, alcuni mai usciti dalla Francia


In una fotografia del 1901 Picasso si auto-ritrae ventenne nel suo atelier in modo atipico con un gioco di fotomontaggi. Alle pareti si sovrappongono i quadri recenti che ha dipinto, dall'autoritratto "Io, Picasso", alla "Scena di Caffè", da "Bevitrice d'assenzio" al "Ritratto di Gustave Coquiot", mentre lui diventa una sagoma spettrale sfumata con tanto di cappello a cilindro in testa. Sul retro, in spagnolo, scrive: "Questa fotografia potrebbe intitolarsi: i muri più solidi si aprono al mio passaggio. Guarda!". "Così l'artista dichiara la sua capacità di superare tutti gli ostacoli e rivendica una libertà illimitata; il romanticismo fin-de-siècle dell'immagine e del commento proclamano tanto la compiutezza della pittura quanto l'invincibilità del talento", dichiara Anne Baldassari, fra i più importanti studiosi di Pablo Picasso e presidente del Musée National Picasso di Parigi, che ha curato la grande mostra "Picasso" che si è aperta il 20 settembre e proseguirà fino al 6 gennaio a Palazzo Reale a Milano. 

Proprio questa fotografia originale è una delle chicche dell'antologica che porta nel capoluogo lombardo, dopo la mostra-evento del 1953 (storicamente memorabile per aver esposto per la prima volta in Italia il capolavoro monumentale di "Guernica"), un repertorio di 250 opere dal Musée National Picasso di Parigi, che vanta la più grande collezione al mondo dell'artista spagnolo. Una collezione, infatti, che proviene dai fondi dello studio dell'artista e per questo ricchissima di opere di carattere biografico, "il che - commenta la Baldassari - le conferisce quel particolare accento di intimità insito nei meandri di ogni storia personale". 


La mostra, che con palazzo Reale segna la prima tappa di un tour mondiale, ha il pregio di riunire per la prima volta le opere principali della collezione dell'artista, con lavori che scandiscono i grandi periodi dell'opera picassiana. Nato a Malaga nel 1881, Picasso sbarca per la prima volta a Parigi nel 1900, dopo aver animato i fermenti avanguardisti tra l'accademica Madrid e la febbricitante Barcellona, per poi soggiornare sempre più spesso nella capitale francese fino a trasferirsi definitivamente nel 1904, trovando lo studio a Bateau-Lavoir. Sono gli anni in cui la frequentazione di artisti e intellettuali diventa quasi fisiologica, da Matisse ad Apollinaire. Ma soprattutto anni in cui la forte fascinazione per maestri come Cézanne, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Puvis de Chavannes, Rodin, ne fomenta l'immaginario estetico. 

L'evoluzione del linguaggio artistico è il fil rouge del percorso espositivo esemplificato da una parata di capolavori come "La Celestina" (1904), "Uomo con il mandolino" (1911), "Ritratto di Olga" (1918), "Due donne che corrono sulla spiaggia" (1922), "Paul come Arlecchino" (1924), "Ritratto di Dora Maar" e "La supplicante" (1937), fino a "Massacro in Corea" (1951). Si passa dal "periodo blu" dove il simbolismo della morte aleggia e pulsa in ogni scena (un disincanto fomentato dallo shock per il suicidio del suo caro amico Casagemas che si sparò in un caffè parigino per la fine di un amore), al "periodo rosa" dove la malinconia è cosparsa di sentimenti più lievi, interpretata da saltimbanchi, acrobati, arlecchini. 

Per cavalcare tutta la stagione rivoluzionaria del cubismo, in un tourbillon di donne-compagne-amanti-modelle, e le sue declinazioni dal 1917 in poi, quando, come avverte la Baldassari, "all'indomani della prima guerra mondiale, Picasso, lungi dal conformarsi al ritorno all'ordine degli anni Venti, investe la dimensione dell'antico di qualità tattili, erotiche, primordiali". La ricerca di Picasso diventerà sempre più variegata, inseguendo la propria personale interpretazione del Neo-classicismo, del Surrealismo e dell'Espressionismo, e soprattutto col recupero magistrale degli archetipi del mito. E i disastri della guerra. Fino alle sperimentazioni plastiche tra papiers collés e tableaux-reliefs. 

Notizie utili - "Picasso. Capolavori dal Museo nazionale Picasso di Parigi", dal 20 settembre al 6 gennaio 2013, Palazzo Reale, Milano
Orari: lunedì, martedì e mercoledì 8.30  -  19.30, giovedì, venerdì, sabato e domenica 9.30  -  23.30.
Ingresso: intero € 9, ridotto € 7,50, ridotto speciale € 4,50
Informazioni: il sito della mostra 2. Tel. 02 54911
Catalogo: 24 ORE Cultura  -  Gruppo 24 ORE.

mercoledì 19 settembre 2012

Caratteri particolari


Rari, artistici, artigianali: i volumi che sanno sedurre i collezionisti


Nell'epoca in cui l'editoria fa i conti con un futuro(anche) digitale, il libro riscopre il suo valore di oggetto antico, volume di pregio, prodotto artistico e manufatto artigianale.

Accade alla nona edizione di «Artelibro Festival del libro d'arte», dal 21 al 23 settembre a Bologna, che propone un ricco calendario di eventi e che dal Palazzo di Re Enzo e del Podestà - cuore della mostra-mercato - si allarga alla città, coinvolti una trentina di spazi pubblici e privati (musei, biblioteche e gallerie). Bologna, «invasa» già fin d'ora da una grande libreria d'arte in piazza del Nettuno, diventa una sorta di «biblioteca d'arte diffusa», forte di un successo consolidato: nella passata edizione «Artelibro» ha richiamato oltre 50 mila visitatori.
Viatico alla rassegna è, il 20, la lectio magistralis di Guido Rossi, giurista e bibliofilo: il tema è quello che fa da cappello all'intera edizione, «Il collezionismo librario: raccogliere è seminare» (alle 17.30, alla Cappella Farnese di Palazzo Accursio). Un argomento trasversale, perfetto per «sfogliare» in maniera diacronica e prospettica l'oggetto libro: ciò che nei secoli è stato seminato e ciò che oggi - raccolto, collezionato - dà i suoi frutti. Così la Biblioteca universitaria ospita «C_artelibro. Il principio delle pagine» in cui a cinquanta artisti - tra cui Giosetta Fioroni, Emilio Isgrò, Giulio Paolini, Marco Nereo Rotelli - è stato chiesto di creare la prima pagina del libro perfetto; i frontespizi ideali ora in mostra diventeranno un volume (Danilo Montanari editore).
Presenza illustre è Umberto Eco, altro bibliofilo eccellente, che guida una cavalcata tra volumi trovati e introvabili dalla Grecia alessandrina a oggi, nella tavola rotonda, promossa da Associazione librai antiquari d'Italia (Alai), «Il collezionismo librario, storia e attualità» (il 21, alle 17.30, al Palazzo di Re Enzo). E ancora, variazioni sul tema, in chiave ironica, ludica e d'attualità sono il ciclo Bibliofollie curato da Andrea Kerbaker e Stefano Salis; i laboratori per ragazzi di Mus-e e MamBo; e «Arte&Libro», incontri «tra penna e pennello» con, tra gli altri, Cristina Acidini e Marco Carminati.
Il dialogo tra editoria, arte e grafica si rinnova guardando al passato. «Jazz Matisse» celebra l'artista francese Henri Matisse attraverso venti tavole colorate à pochoir , rapsodie pittoriche realizzate per il libro Jazz , uscito nel 1947 da Tériade in 250 esemplari e ora riproposto in edizione fac-simile (da Electa Mondadori); le tavole sono esposte al Museo civico medievale fino al 21 ottobre. E, avvicinandosi nel tempo, la mostra «3 Editori storici d'avanguardia», al Museo internazionale della Musica. Si tratta di Enrico Riccardo Sampietro, editore colto ed eclettico che tra il 1965 e il 1968 seppe tradurre in progetto librario le urgenze della Neoavanguardia letteraria italiana che faceva capo al Gruppo 63; di Geiger/Baobab, esperienza nata negli stessi anni a Torino attorno alla figura del poeta sperimentale Adriano Spatola (1941-88) e alla sua idea di opera d'arte totale; infine, di 3ViTre, «rivista sonora» creata negli anni Ottanta da Enzo Minarelli.
Ancora libri per viaggiare. A ritroso, fino al Quattrocento, per gli otto Corali benedettini manoscritti di San Sisto a Piacenza (al Museo civico medievale) e avanti, per un assaggio di futuro con «Fruit. Focus on contemporary art» (al Palazzo di Re Enzo e del Podestà), vetrina dell'editoria self-publishing italiana ed europea: opere cartacee multiformato realizzate da piccole officine e microlaboratori, libri d'arte che circolano nei circuiti underground proposti ora al grande pubblico. E in vendita, per la gioia dei bibliofili, a meno di cento euro.
FONTE: Severino Colombo (corriere.it)

martedì 18 settembre 2012

Roma, Vermeer in mostra alle Scuderie del Quirinale


Evento per il maestro olandese che non dipingeva per le chiese


Da giovedì al 20 gennaio, Vermeer arriva a Roma con otto quadri: un numero mai visto in Italia, e una sola volta al mondo; alle Scuderie del Quirinale le prenotazioni sono già una marea. Per due secoli, fino a metà Ottocento, era stato dimenticato: nemmeno menzionato già a tre anni dalla morte, poi solo poche citazioni e Joshua Reynolds che ne elogia un quadro in un diario di viaggio; lo riscopriranno un critico francese e Marcel Proust; di lui, si sa pochissimo: e anche questo ha permesso che a inizio Novecento, fosse vittima di una falsificazione tra le più imponenti, poi scoperta (per fortuna) negli anni 50; forse, non si è mai mosso dalla sua patria: viveva a Delft, cittadina di solo 22 mila anime e tanti ponti quanti i giorni dell’anno, eppure (sarà il caso o che altro?) ricchissima di 52 pittori.

Giunge a Roma uno degli artisti più misteriosi e preziosi (un catalogo di 35 opere, era molto meditativo e lento), morto ad appena 43 anni, divenuto tra i più osannati ed ambiti: Johannes o Jan Vermeer (1632-75). Otto suoi autentici capolavori faranno compagnia ad altri 49 dipinti coevi, anch’essi del secolo d’oro della pittura olandese, la metà del Seicento: tempi di straordinaria floridezza, economica e non soltanto, una generazione dopo Rembrandt e due dopo Rubens.

Classe media, padre tessitore, mercante di quadri e dopo locandiere; come tutti gli olandesi, a differenza del resto d’Europa, rare occasioni di commissioni pubbliche, e poche possibilità di un posto fisso. Tanti quadri da cavalletto: dimensioni e prezzo ridotti; proposti alle fiere, venduti dagli ambulanti, sorteggiati come premi, o battuti in asta. Vermeer non se la passava bene: in tremende ristrettezze, lottava perfino per nutrire e vestire i figli. Alla morte, due dipinti importanti erano ancora in casa: L’atelier del pittore (oggi al Kunsthistorisches di Vienna), e La veduta di Delft (oggi ad Oslo), che la vedova cede alla madre per salvarla dai creditori, ma senza esito: con altri 25 suoi quadri va all’asta e non sappiamo né quali fossero, né chi li abbia allora acquistati.

Come non sapremo mai quanto egli conoscesse dell’arte italiana: da alcune sue opere, sembra parecchio. Ci sarà anche un quadro di Felice Ficherelli che certamente l’ha ispirato per Santa Prassede; certo, respira un po’ di Caravaggismo: corrente artistica tra le più sviluppate in Olanda, presto importata anche da Hendrick ter Bruggen, a Roma dal 1604 al ’14. La suocera di Vermeer, da cui stava con la famiglia, possedeva un quadro di Dirck Baburen: appare in due sue opere; e nel Seicento, tanti olandesi cercano fortuna a Roma: vivevano già a via Margutta e al Babuino. Forse, è la base di una autentica rivoluzione, nella raffigurazione prospettica e spaziale. Maestro gli è probabilmente Carel Fabritius (1622-54), il più originale discepolo di Rembrandt, giunto a Delft per eseguire pitture murali per Guglielmo II giovane nel 1650, morto presto per la devastante esplosione nel deposito di polvere da sparo del 1654: un dipinto di Egbert van der Poel, in mostra, la descrive; altri invece raccontano Delft come era.

Non dipinge per le chiese o i palazzi dei nobili: le intime scene di interni, i dialoghi serrati tra le figure, le rappresentazioni dei sentimenti, la luce che filtra dalle vetrate, le raffigurazioni della vita quotidiana della società borghese d’allora, sono per gli artigiani e il ceto medio: un suo collezionista era un ricco fornaio. Era in contatto con un mercante di Amsterdam, e suoi quadri finiscono pure all’Aja e ad Anversa; alcuni facoltosi si recano apposta a Delft, per ammirare (comprare?) quanto ha dipinto e realizzato, quanto ha pensato e inventato. 

Dall’inventario post mortem, ne conosciamo la casa, comune denominatore delle sue opere: due locali per la suocera; un seminterrato; un piano dove si soggiornava e cucinava (due stanze e due cucine); un altro piano con due camere, e una era il suo studio. Walter Liedtke del Metropolitan, che con Sandrina Bandera, la direttrice di Brera, e Arthur Wheelock (National di Washington) ha curato la mostra, dice: curioso pensare che il pittore di interni accoglienti e talora, almeno per gli standard olandesi, sontuosi (i pavimenti in marmo, ad esempio), dove vi sono oggetti rari, preziosi, strumenti musicali, tappeti turchi o persiani, brocche d’argento dorato e personaggi distinti, assai ben vestiti, non abbia mai avuto una casa tutta sua, né probabilmente posseduto nulla di più costoso che un dipinto minore di un altro artista.

Tra i quadri che vedremo a Roma, La stradina, un’immagine della sua Delft che è un suo raro esterno: per l’artista tedesco Max Lieberman, «il più bel quadro da cavalletto che esista», la cui tavolozza impressiona parecchio Van Gogh; per Longhi, erano nature morte di città. E’ ad Amsterdam, al Rijksmuseum. Mentre dalla National di Washington arriva La ragazza con il cappellino rosso, le cui piume invadono di splendore l’opera (Giuseppe Ungaretti), tra le sue poche firmate e datate: per Malraux, la sua prima figlia. Ci sono due Giovani donne con il virginale, una con un bicchiere di vino, e una con il liuto; la Santa Prassede e l’Allegoria della fede, con tele di artisti poco noti in Italia, però fondamentali non solo nel periodo: come Gerard ter Borch, Gerrit Dou (spesso, era scambiato per Rembrandt), Carel Fabritius, de Hooch, van der Heyden, van Loo, Maes, Metsu. Alcuni capolavori di Vermeer non si possono prestare: La fanciulla con l’orecchino di perle, La lettera, il Concerto della Frick di New York; ma guardando questi dipinti, si ha la sensazione di vivere quella città e quel mondo. Saranno l’unica, inevitabile mancanza di una mostra che, per Roma, promette d’essere certamente un altro evento da ricordare.

FONTE: ilmessaggero.it

lunedì 17 settembre 2012

Edward Weston: quando l'immagine si tiene in forma


A Modena la grande retrospettiva del fotografo americano che andava alla ricerca della «quintessenza delle cose»

Il mezzo fotografico deve essere usato per registrare la vita, per rendere la vera sostanza e la quintessenza delle cose in sé, si tratti di un lucido acciaio o di carni palpitanti»: avendo Edward Weston simili intenti è facile capire come le immagini del fotografo americano fossero, nello scorso fine settimana, il giusto corollario al Festival di Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dedicato proprio alle «cose». Perché un viaggio nelle fotografie di Weston è proprio un viaggio «nelle cose», dove queste però sono scandagliate nelle loro forme a tal punto che finiscono talora per diventare pura astrazione, si tratti delle foglie di un cavolo, delle ali di un gabbiano, delle dune del deserto o delle curve sinuose di un corpo femminile.

Il bello è che ai suoi esordi, negli Anni 10 del ‘900, Weston, dopo aver fatto per un po’ il sorvegliante alle ferrovie, si era inventato il lavoro di ritrattista da strada: girava per la California, offrendo i suoi servizi porta a porta, per immortalare soggetti che erano bambini, animali o funerali. Poi gli studi, l’abbandono del flou e dello stile pittorialista allora in voga, la conoscenza a New York del gruppo di Stieglitz, la permanenza in Messico con Tina Modotti (assistente, musa e amante: le donne hanno un ruolo fondamentale nella sua vita e sovente segnano anche periodi professionali, come sarà per Margrethe Mather, Sonya Noskowiak e Charis Wilson, con lui negli anni felici della borsa di studio Guggenheim), l’amicizia con

Ansel Adams e la fondazione del gruppo «f/64» (indica la chiusura del diaframma dell’obiettivo che gli aderenti al gruppo usavano per ottenere la massima profondità di campo e quindi la maggior nitidezza possibile). Per un certo periodo questa pattuglia di «talebani» dell’immagine fu la punta di diamante dell’avanguardia fotografica americana: per loro ogni immagine non perfettamente a fuoco, non stampata a contatto, non montata su cartoncino bianco e che non avesse come scelta del soggetto un legame con la realtà era impura.

Weston, come scriverà nei suoi diari, riteneva che «registrare la forma fisica delle cose in modo oggettivo non preclude l’originalità né la soggettività del fotografo». E lo dimostrano proprio le 105 immagini selezionate da Filippo Maggia, nell’ex ospedale di Sant’Agostino, nella mostra realizzata per la Fondazione Fotografia. Immagini che talora creano una sorta di corto circuito temporale, perché le foto di Weston hanno questo di sorprendente: alcuni ritratti soprattutto della stagione messicana, con i soggetti di profilo e in posa quasi «monumentale», non puoi non collocarli negli Anni 30, e pur nella loro perfezione tecnica ti paiono datati, ma altri scatti (pensiamo a Brooklyn o alle altre strutture industriali, dai serbatoi della Gulf Oil alle ciminiere della Armco del 1941) ti sembrano fatti oggi e più contemporanei di molta fotografia contemporanea.

Così come il «duello» con Ansel Adams (una cui grande retrospettiva fu ospitata in questi stessi spazi un anno fa), che si tratti di dune del deserto, di cactus o di gran canyon, finisce per essere vinto da Weston, la cui capacità di «penetrare» le forme risulta indubbiamente superiore. Forse perché era «filosoficamente» più attrezzato: teorizzava che in realtà il fotografo deve avere già nella sua testa l’immagine che poi scatterà, che deve essere frutto del mix tra «svelamento del soggetto, consapevolezza del fotografo e prontezza della macchina».

Pur essendo sostenitore di una fotografia legata alla realtà, e in qualche modo in sintonia «politica» con la generazione di fotografi della Farm Security Administration, Weston non è però interessato all’indagine sociale. Così, se Dorothea Lange & C. girano, negli anni della Grande Depressione, per l’America a fotografare le difficili condizioni di vita dei migranti in cerca di un lavoro, lui collabora con il Governo per una campagna dedicata alle architetture di Monterey nel Nuovo Messico. E più delle persone sembrano affascinarlo le forme delle nuvole o quelle dei cipressi o dei peperoni o la terra «desolata» e crepata dalla siccità.

Weston fu il primo fotografo a ricevere una borsa di studio per poter sperimentare la sua arte dalla Fondazione Guggenheim: nel 1937 e nel ‘38 scattò per quel progetto oltre 1500 negativi. Si ritirò a stamparli a Carmel, in una casa in riva al mare che diventerà il suo ultimo rifugio. Nel 1944 sarà colpito dal morbo di Parkinson, l’ultima foto la scatterà nel 1948. Nel 1956 viene consacrato da una grande omaggio che Beaumont e Nancy Newhall gli rendono alla Smithsonian Institution di Washington. Il primo gennaio del 1958, settantunenne, morirà guardando l’alba sull’Oceano e le sue ceneri verranno disperse nel Pacifico, da quella spiaggia di Point Lobos le cui rocce e i cui anfratti aveva fatto entrare nella storia della Fotografia.

EDWARD WESTON
UNA RETROSPETTIVA
MODENA, EX OSPEDALE SANT’AGOSTINO
FINO AL 9 DICEMBRE

domenica 16 settembre 2012

Tra antico, arte "degenerata" e design A Firenze sfila l'Italia degli anni '30



A Palazzo Strozzi una monumentale mostra ripercorre tutte le "anime" di un'epoca cruciale all'ombra del fascismo. Quasi 140 opere indagano stili e artisti che affermano "la via italiana alla modernità"


Dal classicismo ispirato all'antico, al futurismo di seconda generazione, dall'espressionismo più esistenzialista e "degenerato", all'astrattismo nelle sue ricerche pionieristiche da avanguardia, dall'arte monumentale su cui aleggia lo spettro di un consenso pubblico, alla pittura da salotto, fino all'affermazione di mezzi di comunicazione rivoluzionari come la radio, il cinema, le riviste illustrate, e fino alla riproduzione industriale degli oggetti all'insegna di un design da made in Italy. Sono tutte queste le "anime" artistiche che si distinguono negli anni '30 del Novecento italiano. Per questo "Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo" è una mostra corposa, quasi enciclopedica, che minuziosamente indaga la creatività variegata di un decennio cruciale. 

Un momento in cui, all'ombra di una politica vissuta tra "consenso" e "nausea", si afferma "la via italiana alla modernità", per dirla con Susanna Ragionieri che curato la rassegna con Antonello Negri, Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti. I numeri danno subito l'idea di questo viaggio magniloquente, visitabile dal 22 settembre al 27 gennaio a Palazzo Strozzi, con i suoi 96 dipinti, 17 sculture, 20 oggetti di design, che sfilano nelle sale di Palazzo Strozzi articolati in sette sezioni, arricchite di rare fotografie e spezzoni di film di quegli anni. 

Da collezioni private e musei pubblici arrivano capolavori - val la pena di citarli subito - come la "Donna al sole" di Arturo Martini, e "Donna al caffè" di Antonio Donghi, il "Figliol prodigo" di Alberto Savinio e le "Zingare" di Massimo Campigli, la "Piovra" di Scipione e i "Buoi" di Viani, l'"Amaca" di Felice Carena e il "Montale" di Peyron, i "Giovani in riva al mare" di Gentilini e la "Statua naufragata" di Nathan, lo "Schermidore" di Del Bon e i "Giocatori di polo" di Birolli, oltre a dipinti e sculture astratte di Fontana, Ghiringhelli e Radice. Insomma opere che condensano il carattere di questa epoca fatta, come dice Ragionieri da una "speciale miscela fatta di innovazione e memoria, questo equilibrio fra ragioni della forma e diritti della fantasia, che raggiunge gradi altissimi di qualità, e può indicarsi anche come uno fra i semi all'origine del futuro e decantato made in Italy". 

Una decade che, avverte Susanna Ragionieri: "Si esprime attraverso un'originale rimeditazione degli stimoli provenienti dal contesto europeo, francese e tedesco, ma per estensione anche scandinavo e russo, combinata con l'ascolto e la riproposta di una tradizione quella italiana del Trecento e Quattrocento, già passata al vaglio, con i Valori Plastici e il Realismo magico del decennio precedente, di una tensione verso essenzialità e purezza di forme, spesso venate da una sottile inquietudine". 

La mostra parte dai cosiddetti centri artistici che hanno fatto scuola divenendo in quegli anni manifesto di uno stile e di una ricerca, come la Torino di Casorati, la Roma divisa tra classicismo e realismo inquieto e mai consolatorio (Donghi, Carena, Ceracchini), Firenze coni suoi accorati maestri neorealisti (Rosai, Soffici, Viani), e il Gruppo di Milano con i suoi novecentismi variegati da Sironi e Martini fino a Wildt e Funi. Si indaga l'ebbrezza delle avanguardie tra secondo futurismo e astrattismo, da Prampolini a romani Scipione, Mafai, Pirandello, Cagli e Gentilini con quelle dei milanesi Birolli, Sassu, Fontana, Marini e Melotti, quelle del siciliano Guttuso e dei friulani fratelli Basaldella. 

Mario Sironi diventa protagonista "portabandiera" di un'arte pubblica, raccontata attraverso bozzetti e studi preparatori per committenze. Si ripercorrono poi i "contrasti" tra avanguardie e tradizione, in un doveroso parallelo tra Italia e Germania, quando dopo la presa di potere nazista e soprattutto dopo le leggi razziali del 1938 l'arte moderna sarà bollata come "degenerata". Una chicca è il grande quadro considerato il capolavoro della pittura nazista, "I quattro elementi" di Adolf Ziegler, per la prima volta esposto in Italia. Dal design, si chiude con un focus su Firenze, in bilico fra eredità rinascimentali e presenze internazionali, da Rosai a Bernard Berenson, grande storico dell'arte americano che contribuì alla definizione dell'Italia e, di Firenze nello specifico, come culla dell'arte.

Notizie utili - "Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo", dal 22 settembre al 27 gennaio 2013, Palazzo Strozzi
Orari Tutti i giorni 9.00-20.00 - Giovedì 9.00-23.00
Biglietti: intero € 10,00; ridotto €7,50; € 8,50; € 8,00; scuole € 4,00
Accesso in mostra consentito fino a un'ora prima dell'orario di chiusura
Informazioni: 055 2645155 www.palazzostrozzi.org 2
Catalogo: Giunti

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

sabato 15 settembre 2012

Impulsi ossessivi e sperimentazione Basilea celebra l'ultimo Degas



Alla Fondazione Beyeler oltre 150 opere provenienti dai musei più prestigiosi del mondo ripercorrono la maturità dell'artista francese, che supera la pittura delicata impressionista per sperimentare tecniche e composizioni


La maturità di Edgar Degas, nel suo lento ma inesorabile allontanamento dal gruppo degli impressionisti dall'inizio degli anni '80 dell'Ottocento. E' questo il tema non così convenzionale che sceglie la Fondazione Beyeler per la sua grande mostra d'autunno, visitabile dal 30 settembre al 27 gennaio. Un evento, il primo dedicato in Svizzera all'artista francese dopo vent'anni, curato da Martin Schwander, che raccoglie insieme un repertorio di oltre 150 opere che passano in rassegna i soggetti e le serie più importanti su cui Degas si è concentrato nell'ultima fase produttiva, dalle celebri figure di ballerine ai nudi femminili, dai fantini e cavalli, fino ai paesaggi e ai ritratti, inanellando tutte le tecniche usate dal maestro, nessuna esclusa, tra pittura, disegno, litografia, scultura e fotografia. 

E soprattutto pastello, una tecnica molto difficile ma dalla resa più incisiva rispetto alla pittura ad olio, che Degas predilige anche a causa dei problemi alla vista che cominciano a subentrare nell'ultima fase della sua esistenza. L'artista ne sfoggia una superba padronanza, anche perché è un tipo di tecnica che non ammette pentimenti. Il percorso espositivo si apre proprio con due pastelli appartenenti alla collezione della Fondation Beyeler, "Colazione dopo il bagno (Il bagno)", realizzato tra il 1895 e il 1898, e "Tre danzatrici (gonna blu, corpetto rosso)", del 1903 circa, due gioielli che spalancano subito una finestra sulla prorompente modernità di Degas. Le figure emergono come se fossero plasmate nel colore, con un gioco tratti definiti che sembrano incidere i volumi sulla carta, evocandone quasi una carnalità materica. 

La mostra raccoglie tutti lavori che ricostruiscono la parabola creativa di Degas da quel 1885, da quando l'artista azzarda un cambio di rotta dallo stile impressionista, rimandando ad una crisi generale del movimento che si consuma nella parabola degli anni '70. I lavori lasciano cogliere solo l'eco della sua stagione innovatrice radicalmente impressionista (1870-1885) quando Degas si affacciava alla vita contemporanea dei boulevard parigini e dei caffè di Montparnasse, dell'Opéra e delle corse di cavalli a Longchamp, soprattutto dopo aver metabolizzato la lezione immaginifica del rinascimento italiano, quando tutto per lui sembrava nascere da una lezione perfetta e inossidabile di alchimie prospettiche, di sinfonie cromatiche e viaggi nella psicologia umana. 

Prima al Louvre, iscritto nel 1853 come copista, dove ha copiato tutti i capolavori dei grandi maestri partenopei, primo fra tutti il Mantegna. Poi, con il viaggio in Italia tre anni dopo. Alla fine del '59 faceva ritorno a Parigi, con in valigia più di settecento copie, un souvenir d'Italia prestigioso che rimarrà parte del suo codice genetico nell'avventura impressionista (l'amico poeta Paul Valéry ricorda addirittura che Degas, nei momenti di buon umore, cantava canzoni napoletane e arie di Cimarosa). Il percorso, che mette insieme capolavori dai principali musei del mondo, dal Museum of Fine Arts di Boston alla Tate di Londra, dal Moma al Metropolitan Museum di New York passando per il Musée d'Orsay di Parigi, scandaglia l'evoluzione stilistica della sua arte. 

I tagli prospettici diventano sempre più complessi, offrendo allo spettatore scorci inconsueti e spiazzanti, le pose delle sue figure concedono poco all'idea comune di bellezza, il suo occhio, affaticato e stanco, quasi per reazione si fa ostinato e analitico soffermandosi anche sulla sgradevolezza di gesti piuttosto che sulla fascinazione per il corpo femminile. Una mostra che testimonia con energia come, nell'opera tarda di Degas, la pittura tenue e delicata della fase impressionista lascia posto a un'originalissima volontà di sperimentazione e a un ossessivo impulso creativo.   

Notizie utili - "Edgar Degas", dal 30 settembre al 27 gennaio 2013, Fondation Beyeler, Baselstrasse 101, Comune di Riehen, presso Basilea (Svizzera). Come arrivare: Tram n. 6 da Messeplatz, in direzione Riehen Grenze (20 minuti dal centro di Basilea).
Orari: tutti i giorni, 10-18, mercoledì 10-20, aperto la domenica e i festivi.
Ingresso: intero Chf 21, ridotto Chf 18, studenti under 30 anni Chf 12, ragazzi 11-19 anni Chf 6, bambini under 10 gratis (gli ingressi sono ribassati nei giorni di lunedì, 10-18, e mercoledì 17-20).

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)