lunedì 30 gennaio 2012

Wildt, scultore estremo del '900 in una grande mostra a Forlì

I Musei San Domenico celebrano un maestro dimenticato. Amato da D'Annunzio, Pirandello e Mussolini, Wildt è lo scultore borderline, tra gusto gotico e romantico, titanico e macabro


Il caso Wildt. Uno dei più lunghi, accidentati, controversi della storia dell'arte del secolo scorso. Passato al tritacarne della critica, sia in vita sia dopo la morte nel 1931, per quella sua estetica sempre borderline, mai allineata alla placida e confortevole classicità, ma neanche al servizio delle incalzanti avanguardie. Autore anticonformista, amato da Gabriele D'Annunzio e da Luigi Pirandello per la romantica, eroica - se non addirittura wagneriana - esuberanza teatrale delle sue figure, che collezionava fortuna soprattutto in ambito tedesco (suo sostenitore, il mecenate prussiano Franz Rose) ma ricordato nel secondo dopoguerra come l'autore "imbarazzante" che aveva saputo immortalare Mussolini nel busto colossale inondato di un'aura da tragico e inquietante idolo moderno. 
Un caso che ora vuole risolvere la grande mostra "Wildt L'anima e le forme da Michelangelo a Klimt", che va in scena nei Musei San Domenico dal 28 gennaio al 17 giugno sotto la cura di Fernando Mazzocca in collaborazione con Paola Mola. Un percorso che vuole ricucire i tasselli di una personalità eclettica che dialoga attraverso i secoli con la grandiosità ciclopica delBuonarroti, passando per la glaciale morbidezza del Canova fino alla complessità simbolica di gusto secessionista. 

Adolfo Wildt, milanese doc (1868-1931), originario di una famiglia modesta e maturato a bottega nella fatica pragmatica della scultura, diventa protagonista di una retrospettiva che punta a riscriverne il carattere e la tempra con un inedito confronto serrato attraverso i maestri, quelli che l'hanno ispirato e che da lui sono rimasti influenzati, attraversando il passato di Fidia, Cosmè Tura, Antonello da Messina, Dürer, Pisanello, Bramante, Michelangelo, Bramantino, Bronzino, Bambagia, Bernini, Canova, e la modernità di Previati, Mazzocutelli, Rodin, Klimt, De Chirico, Morandi, Casorati, Fontana, Melotti. Fino a Klimt che a lui guardò con interesse vivido. 

"L'indubbia originalità della vicenda creativa di Wildt - dice Mazzocca - destinata fatalmente a dividere i moltissimi che tra il 1912, quando si rivelava con un'opera sconvolgente come la Trilogia  e il 1931, si sono occupati di lui, emerge dal percorso di una fortuna scandita dalle scelte di committenti e di collezionisti senza pregiudizi, dal suo continuo mettersi in gioco alle esposizioni con una presenza che ha continuato a suscitare sempre vivaci polemiche  e costretto i suoi interpreti a mettersi a loro volta in gioco". 

Cuore della mostra sono le opere conservate a Forlì, legate al mecenatismo della famiglia Paulucci di Calboli, insieme all'Archivio Scheiwiller del famoso editore milanese suocero di Wildt che ne aveva sposato la figlia. A queste si aggiungono prestiti emblematici tra sculture e grafiche. Gotico e barocco, titanico e macabro, inquieto e angosciante, sono queste le anime che convivono nell'opera di Wildt che seduce e turba, stupisce e spaventa, quintessenza di uno stile "sublime" in chiave liberty. Il vuoto delle orbite degli occhi dei suoi volti, i profili ossuti, scheletri che emergono sotto una pelle tirata, bocche trasfigurate da spasmi di dolore, denti che guizzano nelle maschere ispirate a quel teatro che tanto amava e che lo faceva amare dai drammaturghi. 

Lo raccontano opere come "La vedova" di un venticinquenne Wildt in cui ritraeva la moglie Dina, "La maschera del dolore (Autoritratto)", il "Torso del gladiatore",  il doppio "Carattere fiero/Anima gentile", il gioco delle maschere che si moltiplica nel Monumento  funebre ad Aroldo Bonzagni, le maschere commissionate da Pirandello per i Se personaggi in cerca d'autore, i busti colossali delle celebrity dell'epoca, da Vittorio Emanuele III a Pio IX, da Margherita Sarfatti ad Arturo Toscanini, fino al "Crociato" e al "Prigione". 

Notizie utili - "Wildt L'anima e le forme da Michelangelo a Klimt", dal 28 gennaio al 17 giugno 2012, Musei San Domenico, Forlì.
Orari: martedì- venerdì 9:30-19. sabato-domenica e festivi 9:30-20.
Ingresso: intero €10, ridotto €7.
Informazioni prenotazioni: www. mostrawildt. it; visite guidate e laboratori: tel. 02.43353520 servizi@civita. it.
Catalogo: Silvana Editoriale.

FONTE: Laura Larcan (repubblica.it)

giovedì 26 gennaio 2012

Un robot e 24mila fotografie sveleranno i segreti di Guernica


Un macchinario cartesiano indagherà l'opera: immagini con dettagli a 3,5 micron per conoscere lo stato di salute del capolavoro di Picasso e scoprire i disegni "nascosti" dal maestro. Intanto è polemica tra il Reina Sofia e il Prado, che vuole appropriarsi del capolavoro


Un'indagine fotografica dettagliata come non mai, per svelare tutti i segreti della "Guernica" e accertarne lo stato di salute. Eseguita non da un umano ma da un robot. L'operazione ha preso il via in questi giorni nel Museo Reina Sofia di Madrid, dove il capolavoro di Pablo Picasso, icona artistica e non solo del Ventesimo Secolo, è esposto da sempre. La più dettagliata analisi mai realizzata su quest'opera, e la prima per mezzi usati in assoluto, coincide con il settantacinquesimo anniversario dell'opera, che il genio spagnolo creò nel 1937, a documentare da par suo gli orrori della guerra civile che portò al lungo periodo franchista. 
  
Davanti alla tela è quindi stato installato un "robot cartesiano", cioè capace di muoversi sui tre assi corrispondenti alle tre dimensioni spaziali:  una struttura lunga nove metri e alta 3,5 che, cioè quanto la stessa opera firmata da Picasso, che da qui a giugno scatterà oltre 24mila fotografie ad altissima risoluzione (precisione di 3,5 micron) di ogni centimetro quadrato del Guernica, a luce naturale, con gli ultravioletti, a raggi infrarossi. Il progetto "Viaggio all' interno del Guernica", finanziato da una multinazionale spagnola, consentirà in primo luogo, ha precisato oggi il direttore del Museo Reina Sofia Manuel Borja-Villel, di fare il punto sullo stato della tela. L'ultimo studio approfondito risale al 1998, da parte degli esperti del reina Sofia, che avevano parlato di "condizioni di conservazione molto precarie", a causa in particolare dei numerosi viaggi compiuti dal Guernica in giro per il mondo fino al suo rientro in Spagna dopo la morte del dittatore Francisco Franco. 

Picasso dipinse il suo capolavoro assoluto a Parigi per il padiglione del governo repubblicano spagnolo all'Esposizione universale del 1937, mentre nel paese era in corso il bagno di sangue della Guerra Civile. Illustra gli orrori subiti dalla popolazione civile ad opera dei ribelli di Franco e dei loro alleati tedeschi e italiani, che avevano da poco bombardato e raso al suolo la cittadina di Guernica, simbolo della cultura basca. Lo studio consentirà anche di ricostruire con esattezza i vari strati dell'opera, le prime figure dipinte da Picasso e poi coperte da altre, le pennellate, e quindi darà la possibilità di una ricostruzione in 3D del quadro. Durante i lavori di 'dissezione' del Guernica le visite non saranno interrotte. Il robot entrerà in funzione ogni notte dopo la partenza degli ultimi visitatori del museo.

La polemica con il Prado. E proprio la fragilità di Guernica è il motivo definitivo per non spostarla. Mai più. E' questa la risposta implicita del direttore del Reina Sofia alla richiesta avanzata dal Prado, l'altro grande museo madrileno. Il suo direttore, Miguel Zugaza, la reclama. "Per volontà di Picasso - dice - doveva andare al Prado. "Quando Picasso espresse le sue volontà, non esisteva il Reina Sofia". Il direttore Prado aveva già proposto l'anno scorso di spostare il Guernica al Cason del Buen Retiro, una dependance del museo, che lo aveva ospitato già nel 1981. Ma il Reina Sofia, con l' appoggio del governo dell'allora premier Josè Luis Zapatero, aveva respinto seccamente l'idea, sostenendo che il quadro oggi è troppo fragile per potersi muovere.  Il direttore del Reina Sofia Miguel Borja-Villel, ha ribadito oggi il 'no' a uno spostamento del capolavoro di Picasso. "La questione è chiusa, non c'è discussione possibile", ha replicato a Zugaza. "Guernica ha bisogno di un suo luogo proprio, contestualizzato negli anni '30. Toglierlo da questo museo vorrebbe dire toglierlo dal suo contesto" ha tagliato corto. A giugno, poi, il Reina Sofia ospiterà una grande mostra che ruota proprio intorno a Guernica e al padiglione spagnolo dell'Expo' del 1937.

Una carriera itinerante. Una lunga carriera da nomade, per Guernica. Fino alla morte di Franco era rimasta fuori dalla Spagna, girando per il mondo fra Europa e America. Approdò a Madrid solo nel 1981, ospitato dal Prado come aveva auspicato Picasso - morto nel 1973 - che avrebbe voluto vederlo in Spagna solo dopo il "ritorno della Repubblica". Nel 1992 venne spostato al nuovo Reina Sofia - intitolato alla moglie di re Juan Carlos di Borbone, certo non  un repubblicano - da dove non si è più mossa. Ma Zugaza, 10 anni di success-story al Prado, di cui ha raddoppiato numero di visitatori e spazio espositivo, non si arrende. "Se non ora, spero almeno che i miei nipotini possano vederlo vincolato alla meravigliosa collezione del Prado".

FONTE: repubblica.it

domenica 22 gennaio 2012

Quando la fotografia va oltre la realtà A Trastevere c'è Evgene Bavcar


A Roma, per la prima volta una mostra su uno dei più apprezzati fotografi della scena attuale, non vedente dall'età di 12 anni. Esposti, i suoi scatti più famosi guidati-consigliati dalla nipote


"Mi dovete chiedere non come faccio a fotografare, ma perché fotografo. Scatto in rapporto ai rumori, ai profumi e soprattutto in relazione alla mia esperienza della luce. Poi scelgo le mie foto facendomi consigliare da amici con lo sguardo libero da ossessioni personali". Ecco l'intima verità di Evgen Bavcar, racchiusa nella sincera e acuta risposta che tende a dare a tutte le persone che gli ripetono sempre la stessa domanda. Come fa a fotografare? Perché lo sloveno Bavcar, classe '46, considerato uno dei più grandi fotografi della scena contemporanea, è cieco dall'età di dodici anni, a seguito di due incidenti ravvicinati a distanza di un anno. 

E le sue immagini, una selezione delle stampe in bianco e nero più note, insieme ad un nucleo inedito a colori, vanno in mostra per la prima volta a Roma, al Museo di Roma in Trastevere, dal 18 gennaio al 25 marzo, nell'esposizione "Il buio è uno spazio", curata da Enrica Viganò, prodotta e organizzata da Admira in collaborazione con Galerie Esther Woerdehoff di Parigi. 

"Acuto, ironico e incantatore - ce lo racconta Enrica Viganò - riesce a spiegare con parole raffinate che il nostro istintivo pregiudizio non ha fondamenta alcuna: non dobbiamo chiedergli come fotografa, ma perché fotografa. Lo scrigno dei ricordi che ha raccolto fino ai 12 anni, quando la luce faceva ancora parte integrante del suo vedere, diventa il luogo dove attingere visioni. La sua esperienza di luce si fonde con i messaggi che gli arrivano dai sensi attivi: gli odori, i suoni, quello che tocca e quello che prova. Le immagini gli si formano in un gioco di rimandi all'interno di se stesso e nel dialogo con i suoi consiglieri-lettori, persone senza troppe sovrastrutture, che conservano ancora l'innocenza dei bambini. Tra questi preferisce da sempre sua nipote Veronica: angelo protagonista di alcune opere e voce narrante di molti scatti". 

E le sue scene sono avvolte da un'atmosfera onirica, quasi evocativa di suggestioni da "impero delle luci" di magrittiana memoria, dove la notte sembra invadere le figure lasciando baluginare un'essenza solare. I ricordi hanno il sapore della sua infanzia nella Slovenia, fluttuano e aleggiano come enigmatiche presenze incorporee. Le fotografie sembrano riportare alla luce, anzi trasmettere attraverso lo strumento tecnologico della macchina fotografica, l'immaginario il suo mondo emotivo personale. "La luce per Bavcar è una nostalgia ancestrale - riflette Viganò - che inevitabilmente si sovrappone alla nostalgia per la propria infanzia, quando correva nel paesaggio sloveno, quando il giorno era rappresentato dalle rondini e la notte arrivava e andava via". 

La Slovenia è divisa ora con la Francia, dove si è laureato in filosofia estetica alla Sorbona nel 1976, ed è diventato ricercatore presso il Cnrs francese, scrittore, poeta, conduttore radiofonico, conferenziere internazionale. Alle cinque lingue che parla correntemente, ha voluto aggiungere il linguaggio delle immagini. "L'evoluzione tecnologica gli ha permesso di superare ostacoli pratici e concentrarsi sui contenuti della sua arte - conclude Viganò - Dall'alto della sua mente sconfinata scatena una rivoluzione ricca di quesiti esistenziali, in controtendenza rispetto ai luoghi comuni dell'arte e del mondo".

Notizie utili - "Evgen Bavcar, Il buio è uno spazio", dal 19 gennaio al 25 marzo 2012,  Museo
di Roma in Trastevere, Piazza S. Egidio 1B, Roma.
Orari: Martedi--? domenica, 10.00--?20.00
Ingresso: €6,50 intero, €5,50 ridotto.
Informazioni: tel. 060608 

mercoledì 18 gennaio 2012

Un Botticelli che usa l'iPad David Hockney e la primavera di Londra



Cinquantadue quadri per dipingere la stagione più amata. Con il tablet. E' l'ultima performance del più grande pittore inglese vivente. Si può ammirare su una parete intersa della Royal Academy of Arts, che gli dedica una monografia


La primavera in cinquantadue quadri: cinquantuno sono stampe, grandi un metro e mezzo l'una, ricavate da disegni fatti a mano con l'iPad, mentre il cinquantaduesimo è un dipinto ad olio grande quindici metri. Occupa una parete intera della Royal Academy of Arts, il museo londinese che ha inaugurato oggi per la stampa e apre al pubblico da sabato 21 gennaio (fino al 9 aprile) la nuova straordinaria esibizione di colui che è considerato (morto qualche mese fa Lucien Freud - l'unico a fargli concorrenza a questo livello) il più grande pittore inglese vivente e probabilmente il più grande del mondo.

"L'arrivo della natura non si può fare con un solo quadro", dice l'artista, che sembra un quadro anche lui, perfetto in ogni particolare, cappottone nero, berretto di tweed alla Andy Capp, sciarpa sgargiante, impeccabile vestito grigio sotto. "Ho sempre desiderato fare un grande quadro sull'arrivo della primavera, quando le foglie cominciano a sbocciare sugli alberi e pare che volino nello spazio in un modo meraviglioso". Ma un quadro non bastava: così ne ha fatti 52, utilizzando la tecnica messa disposizione dal progresso tecnologico, l'iPad, "una application che costa appena 8 sterline", spiega Hockney, "e che ti permette di dipingere con le dita sullo schermo, facendo il pennello grosso o fino, mescolando il colore,cambiando la luminosità, e puoi tenerti questo apparecchietto in tasca, non hai bisogno di portarti dietro nulla, né tele, né matite, né acqua, niente di niente. Oh, come sarebbe piaciuto l'iPad a certi artisti del passato, a Tiepolo, a Van Gogh. L'unico svantaggio è che non senti la resistenza della carta alla matita o al pennello, un fattore importante per chi disegna o dipinge, ma i vantaggi superano gli svantaggi".

Non gli bastava un quadro, per fare l'arrivo della primavera, e non gli bastava una primavera: ce ne sono volute quattro, la prima per osservare, la seconda e la terza per preparare, fare bozzetti, immaginare il tutto, e la quarta per dipingere, sull'iPad o su tela, i 52 quadri intitolati "The arrival of spring in Woldgate, East Yorkshire, in 2011", che sono al centro dello show alla Royal Academy. Nato nello Yorkshire, Hockney lo ha lasciato prima per Londra per diventare uno dei ragazzi prodigio della Pop Art inglese dei primi anni Sessanta, quindi per emigrare in California del sud, dove abita da quarant'anni a due passi dall'oceano Pacifico, ed è alla West Coast e più in generale all'America che ha dedicato gran parte della sua produzione. Ma poi, negli ultimi anni, ha sentito l'esigenza di tornare un po' a casa propria, di rivedere la terra e i colori in cui è nato e cresciuto, un amarcord pittorico il cui risultato sono non soltanto i 52 quadri sull'arrivo della primavera ma pure svariate altre decine, il cui tema è sempre lo stesso: lo Yorkshire, il ritorno alla natura del pittore delle free-way californiane intasate di traffico e delle piscine hollywoodiane. 

"Sì, ho passato trent'anni in California, dove la primavera è breve, quasi non te ne accorgi, è sempre estate da quelle parti, così tornare a casa ha avuto un grande impatto visivo", racconta. "E la primavera è uno stupendo spettacolo da guardare". Lui lo ha guardato non solo con gli occhi e non lo ha disegnato solo con matite, pennelli ed iPad: lo ha anche filmato, con diciotto telecamere mobili attaccate alla propria jeep, riprendendo il passaggio dalla neve dell'inverno alla luce della primavera nei campi, nei boschi, nei vialetti accanto alla casa della sua infanzia. Anche quello un modo nuovo di dipingere, per un artista che ha sempre cavalcato l'innovazione. E si rimane affascinati, frastornati, stupefatti, da questa mostra intitolata "A bigger picture", allusione alla sua famosa serie californiana "A bigger splash" ma pure alle dimensioni mastodontiche di questi coloratissimi quadri che somigliano a un trip lisergico in chiave bucolica: soltanto l'occhio di Hockney poteva vedere così, e così reinterpretare, il tranquillo countryside inglese.

FONTE: Enrico Franceschini (repubblica.it)

mercoledì 11 gennaio 2012

Scianna, ritorno in Sicilia con sentimento


Feste popolari, scrittori, moda e vita quotidiana. In vetrina nel cuore della città la carriera del fotografo

La linea retta che porta dal mare al cuore di Palermo è Corso Vittorio Emanuele, la strada principale zeppa di negozietti di souvenir, di armi e di santi, con settanta banner bifacciali che svolazzano in aria per celebrare il fotografo siciliano Ferdinando Scianna (Bagheria 1943). Tornato nella sua terra d’origine con una doppia mostra - «Ferdinando Scianna e la Sicilia, da Porta a Porta», curata da Doretta e Laura Landino - il fotografo espone una settantina di immagini della Sicilia al Loggiato San Bartolomeo e all’Oratorio S.S. Elena e Costantino. Le sedi - poste alle due estremità della via, a Porta Nuova (Palazzo d’Orleans) e a Porta Felice (Foro Italico) e i banner fatti da artisti che hanno partecipato a un concorso per realizzare opere attorno alle immagini di Scianna - uniscono idealmente le due zone di Palermo. Le mostre non si limitano però alle foto, si completano con installazioni multimediali che riportano frasi dell’autore.

«Penso - afferma Scianna - che la mia fotografia sia una fotografia contaminata. Che abbia bisogno di essere arricchita, accompagnata da esperienze mentali, rituali, letterarie filosofiche o esistenziali che la nutrono. La mia struttura formale ha sempre una motivazione altra cui fa eco sempre una parola». Ogni suo scatto è un racconto antropologico che raggiunge la profondità dell’animo umano. Lo sono le immagini sgranate, grandi o piccole in bianco e nero, delle feste religiose di Bagheria con quell’umanità compatta e impaurita, tenera e superstiziosa, che sfila nei vicoli della città. Lo sono i volti penitenti, supplichevoli, stupefatti, che scivolano in processione, immersi surrealmente in quel misterioso incontro tra mondo materiale, metafisica e teatro. «I momenti che mi piace ricordare - affermato l’autore - sono quelli, purtroppo rari, nei quali, magari sotto casa, la realtà mi sembrava miracolosamente organizzarsi in modo che io potessi coglierne un istante significativo e irripetibile».

E’ così che la realtà, nel suo obiettivo, diventa poesia. Le foto riportano atmosfere ancestrali, come la lava che solitaria carezza e brucia la terra. Il mondo immobile dei riti, che affiora nei volti di sempre, si anima in un contesto che riemerge dalle macerie della guerra per scoprire l’esistenza del cinema. È il grande racconto dell’umanità contadina, povera, violenta, ignorante e sublime che si rialza. Quel racconto amato, e a sua volta raccontato, da Leonardo Sciascia, il quale nel 1963, visita la prima mostra del giovanissimo Scianna. È così entusiasta delle foto che gli lascia un biglietto di complimenti. Dopo qualche giorno nascerà tra loro una profonda amicizia e in seguito, lo scrittore farà il testo per il primo libro del fotografo, Feste religiose in Sicilia, che otterrà il premio Nadar. Quando nel 1966 Scianna si trasferirà a Milano, comincerà a collaborare per l’Europeo come fotoreporter e inviato speciale.

«Imparai il mestiere a colpi di stroncature - racconta in un’intervista -. Il commento più frequente alle prime foto era “che cos’è sta cacata?”. Per l’Europeo sono stato ovunque, a San Remo per il Festival, per le strade di Milano a seguire i cantanti popolari, in Bangladesh per l’alluvione. A metà Anni Settanta il direttore Giglio mi mandò a Parigi». E a Parigi conobbe Henry Cartier-Bresson. Grazie al suo incoraggiamento si presentò all’agenzia Magnum e fu il primo fotografo italiano a farne parte. Per Scianna la foto è scrittura di luce o scrittura con la luce, è «sia il mondo che scrive, sia tu che scrivi». E’ un campo senza gerarchie: un’immagine di cronaca, un’opera, una pubblicità. Può essere il ritratto della miseria, un capo indossato dalla top model Marpessa o il ritratto dell’illuminata cecità di Jorge Luis Borges. Può essere terra arida, mare, spazio, o il volto di Martin Scorsese che tiene in mano, con sguardo perso, la foto della madre in fasce. In queste due mostre Scianna racconta i legami di sangue tra uomini e uomini, nel rapporto viscerale e drammatico, tra loro, la terra e le divinità.

FERDINANDO SCIANNA
PALERMO LOGGIATO SAN BARTOLOMEO E ORATORIO S.S. ELENA E COSTANTINO
FINO AL 22 GENNAIO

martedì 10 gennaio 2012

Perugino, maestro di raffinatezze


L'Alte Pinakothek celebra l'anniversario della fondazione con una grande mostra dedicata all'influenza dell'artista su Raffaello

Giustamente l’Alte Pinakotek di Monaco, uno dei più ragguardevoli musei d’Europa, in una città colta e musicale, che di musei prestigiosi ne presenta moltissimi, ha deciso di salutare i suoi 175 anni di fondazione con la celebrazione d’un quadro benedetto e dal pedigree simbolico (che torna in pompa magna al museo, dopo un lungo, necessario, sapiente restauro, senza troppe sgargianti vernici all’americana). Ovvero La Visione di San Bernardo, di Pietro Perugino, uno dei suoi indubbi capolavori, da tempo emigrato ed acquistato per questa stessa istituzione, in tempi emblematici, dal Re di Baviera stesso, quel Ludwig I (nonno dell’eccentrico, wagneriano Ludwig II) statista ed anche lui relativamente dissipatore di sostanze patrie, ma non in capricci e castelli. Piuttosto con acquisti mirati di opere vistose di pittura, propugnatore del neoclassicismo e committente di quella celebre Galleria delle belle donne, in cui alcune bellezze femminili del momento erano state immortalate in una sorta di harem dipinto (nessun mistero che fosse stato anche il folle amante di Lola Montez, anzi, costretto all’abdicazione).

Qui, invece, con la Visione siamo alla pietas religiosa più immacolata. Il Santo cistercense, seduto al suo scranno, entro una magnifica architettura prospettica fiorentina, aperta su uno scorcio di tremula natura tosco-fiamminga, quasi ipnotizzato dalla visione che scolpisce nell’incantesimo le sue mani stuporose, accoglie accanto a sé una Vergine, contigata e verissima, se pure accompagnata in corteo da angeli melodiosi. E non stupisce che intorno a quest’opera centrale il museo abbia come ri-architettato la disposizione stessa delle sue collezioni nazionali. Che hanno in gran parte un tenore nordico (Altdorfer e Dürer, Memling e Breughel, Rubens e Rembrandt) facendo dialogare alcuni armoniosi Perugino con altri artisti d’Italia centrale, tipo il soave Francesco Francia, d’una Madonna pensosa e sommessa. Ma anche da portentosi disegni, soprattutto di Perugino e Raffaello. A mostrare la loro stretta fratellanza (anche se il «naturalista» Perugino è degno talvolta di Leonardo).

La mostra principale s’intitola infatti, in modo abbastanza curioso: «Perugino, maestro di Raffaello». Come a sottolineare questa sudditanza un po’ ingiusta: in realtà oggi si pensa piuttosto che Raffaello sia stato allievo del padre Giovanni Santi e che l’incontro con Perugino sia avvenuto come in una sorta di fratellanza ideale, trasognata. Lo dimostra qui la vicinanza-confronto, con alcuni disegni, che lascian intendere in fondo quale fosse la loro differente visione della pittura spirituale ed idealizzata. Perugino più sentimentale e come raddolcito dal suo talento naturale (non dolciastro, come una scolastica polemica lascia talvolta intendere). Raffaello più sperimentale ed inquieto (anche se poi il giovane urbinate presenta un momento grafico quasi sovrapponibile mentre Perugino, quando deve schizzare le «prime idee», sa improntare gesti grafici e nervosi. Vedi qui la bellissima Pietà come scheggiata).

Certo, non c’è dubbio che quando Ludovico di Baviera acquista, ad una somma importante, il «suo» Perugino, pur sapendo che è Perugino, lo compra probabilmente perché non trova sul mercato un Raffaello disponibile (per la Madonna della Tenda seppe attendere oltre vent’anni di trattative) e quell’incantata visione virginale gli pare colmare un incolmabile vuoto. Imperdonabile, per il gusto palatino. Popolarissimo al suo tempo (tra pittori non meno virtuosi e richiesti. Del resto esce dalla prestigiosa bottega del Verrocchio, dove ha accanto un sensazionale garzone, dal nome Leonardo e compagni di strada che si chiamano Botticelli e Ghirlandaio) risulta fin troppo vessato dalle committenze ricche. Al punto che la solita scolastica detrattiva vuole che con la sua fiorente bottega sia divenuto in tarda età una sorta di fabbrica stereotipata d’opere-clone. Così conobbe presto un’eclissi di notorietà assai ampia. Sino a quel tardo Ottocento, purista e nazareno, che lo rese quasi proverbiale: «pittor divino» e ispiratore-principe di quel gusto un po’ bamboleggiante e mièvre, immaginetta, ch’è tipico di certo tardo Ottocento oleografico.

Così a Monaco, una piccola mostra nella mostra, permette di verificare come, nelle incisioni, tra Neoclassicismo e Biedermeier, il leggendario «maestro di Raffaello» (conosciuto nei viaggi di nozze più romantik) si trasformasse in un soggetto ideale per la pittura di storia calligrafica, talvolta persino voltato nella lucida porcellana da salotto (anche se la presenza qui di omaggi di Degas e Redon dimostra quali palati sofisticati sapesse titillare). Poi l’eclissi e il quasi-disprezzo, in vero cavalcato già dal Vasari, che certo non lo sopportava (probabilmente per emulazione con l’adorato Michelangelo, che, messo in discussione dal Perugino stesso, lo trattò per rivalsa da «pittorucolo goffo»). Sono soprattutto morali, le obiezioni di Vasari (e per noi paradossali): «Fu Pietro persona di assai poca religione e (...) con parole accomodate al suo cervello di porfido, non se gli poté mai far credere l’immortalità dell’anima». Poverissimo nell’infanzia, rimase così sempre attaccato al denaro e, avido, lavorò fin troppo, «avendo sempre davanti agli occhi il terrore della povertà, faceva cose per guadagnare».

Malignità proverbiale di Vasari? Certo, se da Monaco si passa a Campione d’Italia (curioso che necessiti di restare all’estero, per scoprire delle mostre degne sul «divin pittore») si capisce meglio questo discorso sul declino di un grande maestro. Per quanto i curatori si sforzino di far tornare i conti sull’autografia di queste minime tavolette da polittico, inedite ed offerte da un collezionista del Canton Ticino, il dubbio rimane e gli esperti dovranno pronunciarsi su questa pennellata tarda, che ora risulta più incerta e sommaria. Accanto, due «ritratti» sacri, di influenza molto veneta, che s’ipotizza fossero legati da un dittichetto di devozione privata. Da studiare.

FONTE: Marco Vallora