domenica 29 luglio 2012

Joana Vasconcelos, un cuore pop nelle stanze della regina



A Versailles l'artista portoghese gioca coi materiali e con i fantasmi femminili che popolano la reggia

La lunga fila d’attesa e le spinte degli innumerevoli visitatori, i continui flash delle macchine fotografiche e persino la vaga sensazione di trovarsi dentro una di quelle immagini di Thomas Struth che raccontano la mercificazione contemporanea della cultura: si può sopportare tutto, se il premio è una visione pop e sovversiva del più emblematico dei castelli francesi. Joana Vasconcelos e Versailles è in effetti un incontro che mantiene tutte le promesse: da una parte l’artista portoghese salita alla ribalta internazionale con un’opera esposta alla Biennale di Venezia del 2005 e intitolata The Bride , un immenso lampadario stile Settecento realizzato interamente con candidi assorbenti. Dall’altro uno straordinario scrigno di arte e storia, teatro di fatti e intrighi talmente narrati da cinema, letteratura e pittura da essere diventato un’icona al pari di una Campbell Soup.

Non c’è dubbio, infatti, che lo sguardo di Vasconcelos sia rivolto proprio ai maestri della pop art statunitense, a Andy Warhol naturalmente, anche se è soprattutto a Oldenburg che si pensa quando a puntellare il Salone della Pace e quello della Guerra, appaiono due cuori enormi e sospesi, uno rosso e l’altro nero, ricamati con raffinatezza come se al posto della plastica trasparente ci fosse della seta. Un’indole pop capace ancora una volta di utilizzare i più comuni tra gli oggetti di ogni giorno, per renderli improvvisamente protagonisti assoluti, illuminati dalla luce della ribalta. Ma l’artista portoghese non è soltanto questo: la sua ricerca vuole anche mettere in questione le nozioni di identità, nazionale, religiosa o sessuale poco importa, e non c’è dubbio che i saloni rococò di Versailles non potrebbero essere un palcoscenico più appropriato.

Un approccio critico, dove però l’ideologia è lontana e resta soprattutto la consapevolezza di poter giocare con tutti gli stereotipi, a cominciare da quelli che riguardano la femminilità. E nell’interpretazione di Vasconcelos le stanze di Versailles sono abitate proprio da fantasmi femminili e dalle loro possibili e impossibili versioni attuali. Maria Antonietta innanzitutto, ma anche le dame del Trianon, le tante madri, amanti, mogli. Sono le differenti modalità dell’essere donne vicine al potere, potere esse stesse, ad interessare Vasconcelos: «Quando passeggio per le stanze del Palazzo e per il giardino, sento l’energia di un posto sospeso tra la realtà e i sogni, la quotidianità e la magia, l’allegro e il tragico. Posso ancora sentire l’eco del passi di Maria Antonietta, la musica e l’ambiente gioioso delle camere imponenti». Ecco così apparire due gigantesche scarpe dal tacco altissimo e se il titolo, Marilyn , non lascia spazio al dubbio e ci porta al cuore della più sfrenata sensualità, bisogna guardare al materiale utilizzato, pentole e splendenti coperchi inox, per riconoscere la cifra stilistica di Vasconcelos. Patinata seduzione e lavoro domestico convivono dunque, come altrove cultura alta e bassa, maschile e femminile, forme basiche e estrema raffinatezza. E in questo senso non potrebbe essere più illuminante l’elicottero a grandezza naturale coperto di cristalli e piume di struzzo rosa, con l’abitacolo arredato con la leziosità di un boudoir.

Ma da prima artista donna invitata ad esporre nello Chateau, Vasconcelos ha voluto giocare fino in fondo, pensando, forse, anche ai tanti maestri artigiani che hanno decorato con i materiali più preziosi le stanze da letto e quelle adibite alla socialità, in un continuum che sembra escludere ogni possibile senso del pudore. Ecco che nell’imponente salone delle Battaglie, dove scorrono uno dopo l’altro i grandi quadri che celebrano la storia militare francese, Joana Vasconcelos sceglie di sospendere quattro immense Valchirie , divinità nordiche, realizzate con un’esplosione sorprendente di materiali e colori differenti, stoffe, feltro, ricami, uncinetto lavorato a mano, tanto che le creature amate da Wagner non conservano nulla di luttuoso, ma appaiono piuttosto come una gioiosa rivendicazione. Così come Maria Antonietta, che viene assolta, anzi interpretata, in linea con la riabilitazione più recente, come il primo momento di emancipazione femminile. Straordinario il lavoro esposto proprio nella sua camera dai motivi floreali: un uovo di legno con intarsi in ebano che lascia uscire da se delle lunghe parrucche bionde e non si potrebbe davvero immaginare un sovvertimento più radicale e divertito dell’idea di decorazione.

JOANA VASCONCELOS
PARIGI, CASTELLO DI VERSAILLES
FINO A 30 SETTEMBRE

FONTE: Elena Del Drago (lastampa.it)

sabato 21 luglio 2012

Mostra d’arte contemporanea su Santa Rosalia. In anteprima Ie opere di Musti, Tornese e Martorana



Per celebrare Santa Rosalia a Palermo, quest’anno è stata è stato organizzato anche un evento culturale. Il 14 luglio, infatti, nelle sale dei Palazzi Di Napoli e Costantino, siti ai Quattro Canti, è stata inaugurata una mostra iconografica su Santa Rosalia con opere del ‘600 della collezione Bilotti Ruggi d’Aragona e di devozione popolare della collezione Giancarlo Gualtieri A.I.C.I.S. -Associazione Italiana Cultori Immagini Sacre. La rassegna artistica ospiterà, inoltre, una inedita reinterpretazione contemporanea di opere, installazioni e performance dal tema “Santa Rosalia e Il Festino”. Tra gli artisti partecipanti Arrigo Musti, Rosario Tornese ed Elisa Martorana. I tre “maestri dell’arte” presenteranno i loro lavori, esaltando le caratteristiche tipiche della loro arte. 
L’opera di Arrigo Musti è una tela monumentale di 3x 2 metri, raffigurante Santa Rosalia,  che denuncia e condanna le condizioni di degrado della Palermo di oggi. Un lavoro realizzato con  la tecnica dell’“impop-art”, tipica di Musti, che rappresenta le riflessioni e le considerazioni sulla violenza del secolo “breve”, che si trasformano in immagini. Una Santa che non sembra una Santa, rappresentata come una degli “Ultimi”, che non ha pupille e che l’artista dice di volerle disegnare nel momento in cui Palermo troverà di nuovo il suo splendore. Tra gli altri artisti anche  Rosario Tornese, docente del Liceo Artistico Renato Guttuso e la graphic designer e fotoreporter, Elisa MartoranaTornese per l’occasione presenterà un’opera in tecnica mista a base di acrilici rappresentante Santa Rosalia, con il volto appena accennato, ai Quattro Canti. La Martorana, invece, offrirà un reportage a tema, dal titolo “La Santuzza torna a Palermo”. Si tratta di una sorta di trasfigurazione della Santa ai giorni d’oggi. La relazione fotografica narra di Dio che manda Santa Rosalia nella Palermo del 2012 per soccorrere il suo popolo da un nuovo morbo “troppo ciechi e muti per pregare un miracolo”.  La Santa, quindi, visita la Palermo Moderna con la speranza di compiere un nuovo miracolo. Questo reportage, realizzato anche grazie al contributo di Noemi Sanfilippo – attrice della compagnia teatrale Putia d’Arte Malvina Franco- che ha interpretato nelle foto Santa Rosalia, è corredato anche da un “nuovo cuntu” – scritto da Elisa Martorana e tradotto in siciliano antico da Noemi Sanfilippo- che narra le vicende immortalate nelle foto. Un lavoro provocatorio ma romantico allo stesso tempo che vale la pena di visitare durante i festeggiamenti della Patrona Palermitana.
Il 14 luglio c'è stata l’inaugurazione, mentre da domenica 15 luglio la mostra è stata aperta al pubblico  dalle 10:00 alle 19:00 a Palazzo Costantino, in Via Maqueda 217, Palermo.
FONTE: Giusy Chiello (ilmiogiornale.org)

venerdì 20 luglio 2012

I sudari specchianti di Antonaci



Alla Fondazione Maramotti un artista «inafferrabile»

Massimo Antonaci è lontano anni luce (proprio nel senso di una sua materica e vischiosa essenza, anche meditativa, di lattea opalescenza riottosa, per quanto abbracciante, di sapiente ritrosia panoramica, panoptica, che scende verso l’abisso d’un luminosissimo nulla, da teologia negativa, e che però avvolge e suggestiona) da tutte le invasive pastoie odierne di etichette, periodizzazioni, scuderie, camarille, tendenze. E difatti, con tutto il rispetto per la sua densità di percorso, qui da noi (è fuggito in America) chi lo conosce? È davvero un insistemabile ed asistematico irregolare, evviva, della visibilità in absentia (non ci sono figure, a stento giochi calcolatori di geometrie libere, slacciate, nei suoi vitrei polittici muti d’immagini, che qualcuno potrebbe superficialmente giudicare mondrianesche, neo-plastiche, ma sarebbe una scorciatoia cieca).

E ci pare doveroso rispettare questa sua incatalogabilità intemporale, che sfugge anche dai bordi consunti delle sue «vetrate», paradossalmente incatramate, lampanti e lappate di luce. Certo, giriamo intorno al fuoco freddo, minerale, delle sue opere, senza volere e saperle descrivere, grandi superfici-crocefissi mono-colore di lastre appoggiate alle pareti (appunto, riferito così sembra molto banale e risaputo) ove il bianco lattiginoso o il nero vitreo e cantante, lasciano trasparire, quasi mentalmente, l’idea basilare ed originaria d’una nigredo pulsante sotto di paste incatramate, di celesti fuochi spenti hoelderliniani, che ancora gittano bagliori: insieme terribili ma anche radiosi, puri spiriti alla Milton.

L’idea propulsiva, quasi percussiva, alla base di questi sudari specchianti, è che l’immagine, negata, filtri attraverso evidenti fissurazioni costitutive, crepe regolarissime e provocatoriamente cartesiane, varchi, intercapedini, interstizi, che prendono il posto delle antiche colature leganti in piombo fuso, nelle vetrate medievali (e Antonacci, con i suoi iniziatici cammini verso Santiago, e verso la meditazione mistica, serpenti warburghiani ed ouroburi infiniti chiusi tra odorosi papiri, è assai vicino al mondo delle cattedrali e a quell’ermetico inafferrabile alchimista del tardo Ottocento, che fu il Fulcanelli). «Sudari dello spazio», li chiama efficacemente Marco Belpoliti, che dedica un intenso (e datato 1987-2012) saggio-autorispecchiato, in cui segue il percorso di questo artista, che curiosamente, ermeticamente, nelle prime quindici pagine egli non cita mai come persona, quasi fosse un’entità spirituale, aerea, incorporea (poi viene fuori l’amico, il viaggio di speranza dalla nativa Puglia romanica e messapica verso il livido cielo dell’Accademia di Brera, ed infine la fuga a Manhattan, a farsi «calcinare» dalla luce liberatoria e atlantica di New York, nella stessa via ove Steinberg immaginava i suoi planetari viaggi inter-grafici).

Ed è inevitabile che Belpoliti debba imboccare la via non della descrizione critica ma della meditazione filosofica, dell’ Aletheia di Heidegger, verità che si svela velandosi: «questo vogliono ricordarci le lastre vetrose: tutto quello che ci è noto della verità è per riflessione, perché la verità ha provveduto a sottrarsi». Alfabeti indecifrabili di luce, lastre matericamente incorporee, che si sviluppano nelle nostre pupille, impedendoci però di specchiarci come lobotomizzate mandrie del consumo «culturale». Ecco, mostre importanti e alternative come queste, ci lasciano l’illusione che sia veramente alla frutta un periodo politicamente strangolato dal bipolarismo mercantile del Potere Espositivo, spartito tra imperdonabili scemenze vetero-concettuali, in agonia, o risibili prove di forza d’una neo-pittura criminalesca.

MASSIMO ANTONACI
IPOTENUSA
REGGIO EMILIA. FOND. MARAMOTTI
FINO AL 31 LUGLIO

FONTE: Marco Vallora (lastampa.it)